Si veda per esempio il conflitto che oppone oggi Cina e US attorno a Taiwan. Dire che gli USA non vogliono restituire Taiwan alla Cina perché attraverso quell’isola controllano militarmente la Cina è dire solo una piccola parte della verità. Se si trattasse solo di avere una presenza militare marittima nel Pacifico Orientale, Giappone, Corea del Sud e Filippine basterebbero per questo.
Taiwan è uno stato-di-fatto non riconosciuto dall’ONU e nemmeno dagli stessi Stati Uniti, dagli anni 1970 in poi. Taiwan è un buco nel tessuto della legalità internazionale, possiamo considerare quell’isola una questione interna della Cina, così come consideriamo il separatismo catalano e basco una questione interna della Spagna. Eppure gli USA ci tengono assolutamente a preservarne un’illegale indipendenza.
Chi è convinto che alla base dei conflitti politici ci siano sempre e solo interessi economici, dirà che Taiwan è importante in quanto è il massimo produttore mondiale di microchips. E’ vero, ma se le cose si mettessero davvero male per Taiwan, gli Stati Uniti sarebbero capaci anche di far migrare qualche milione di taiwanesi che lavorano nel campo elettronico in America… Dopo tutto, gli USA assorbono centinaia di migliaia di immigrati ogni anno, potrebbero anche far migrare tanti taiwanesi. Del resto, Cina, USA e Europa sono economicamente interdipendenti da decenni, ma questo non impedisce loro di trattarsi da nemici politici.
Non si capisce perché la Cina tenga tanto a reintegrare un’isola come Taiwan di soli 23 milioni di abitanti – una goccia d’acqua rispetto al mare della popolazione cinedse (1 miliardo e 400 milioni). Giusto per mettere le mani sull’industria dei microprocessori? Non potrebbe avere buoni rapporti con quell’isola indipendente, come si hanno buoni rapporti con tanti altri stati insulari come Malta, l’Islanda, Zanzibar, isole Figi, Samoa, Vanuatu…? Stati minuscoli come Andorra, il Lichtenstein e il Bhutan non hanno ottimi rapporti con i loro grandi vicini, ovvero Spagna, Svizzera e India? E in effetti la Cina, finché avrà capi sani di mente, non farà mai la guerra contro gli Stati Uniti per Taiwan, almeno fin quando gli Stati Uniti significheranno alla Cina che non le lasceranno occupare a basso costo Taiwan.
Perché allora tutto questo chiasso attorno a Taiwan? Credo per due ragioni immateriali, ma strategicamente importanti.
Nel caso degli Stati Uniti, perché (1) devono dimostrare al mondo di essere alleati affidabili e perché (2) devono difendere una democrazia contro uno stato autarchico come la Cina. Quanto alla Cina, dice di volerla recuperare per “essere coerente con i propri impegni storici”.
Uno stato potente ha alleati se garantisce la loro protezione. Negli anni 1970, quando il presidente Nixon optò per la Cina, fece ai taiwanesi questa promessa consolatoria: gli US li avrebbero sempre difesi contro i cinesi della terraferma. Se gli US non mantenessero questa promessa, si discrediterebbero. Come si è discreditata in parte la Russia, di recente, quando non è riuscita a difendere l’Armenia contro l’Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh. L’Italia garantisce la difesa della Repubblica di San Marino: se quel paesino venisse attaccato, l’Italia dovrebbe scendere in guerra per San Marino! Non potrebbe fare altrimenti.
Ma in più gli USA da un paio di secoli si presentano al mondo come il paese che difende tutti gli stati liberi, ovvero, secondo la narrazione americana, che sono retti da una democrazia liberale simile a quella americana. E Taiwan rientra in questi parametri. Che chi guida l’America ci creda o meno, è secondario: a partire dal XX° secolo gli Stati Uniti si sono dati una vocazione missionaria, che di fatto ha annullato la dottrina Monroe. Essa ha stabilito le regole di un gioco i cui elementi sono filosofici: ovunque uno stato democratico-liberale è minacciato, gli US si pongono come suo paladino. E in effetti tutti gli stati che funzionano con una democrazia liberale (non socialista né teocratica) sono alleati degli Stati Uniti. Anche se alcuni sono alleato in modo tiepido. L’India, la più grande democrazia del mondo, è paese non ostile agli Stati Uniti ma attualmente propende per un’alleanza con l’Est del mondo, Cina e Russia. Un paese liberal-democratico anti-americano, questa sarebbe una novità storica.
Un’eccezione è la Serbia, che la NATO bombardò nel 1999. E ovviamente il Cile di Allende, una macchia nell’onore americano.
Molto spesso si deride questa vocazione filosofica degli USA elencando tutti i paesi totalitari e dispotici con cui essa è alleata – a cominciare dall’Arabia Saudita. Ma è evidente che nella politica reale un paese deve allearsi anche con forze dalla narrazione diversa: tra due paesi con filosofie molto diverse dalle mie, A e B, se B è considerato il pericolo maggiore, posso anche allearmi con A se questo odia B, anche se la sua narrazione è per me orripilante. Anche un paese iper-ideologico come l’Iran trova conveniente allearsi attualmente con gli infedeli russi, nella misura in cui la Russia la aiuta a contrastare il nemico per lei principale, gli Stati Uniti.
Quel che identifica la narrazione di un paese A è il fatto che esso resta amico di un altro paese B con la stessa narrazione, anche se questo paese B sviluppa interessi conflittuali con quelli di A. Per esempio, alla fine degli anni 1980 la sola potenza che potesse veramente rivaleggiare con gli USA non era certo la Cina, ma il Giappone. Questo era visto come la nuova grande potenza economica che poteva scalzare il primato americano. Ma nessuno pensava che questo avrebbe portato a un qualsiasi conflitto anche armato tra US e Giappone. Anche perché all’epoca il Giappone non aveva forze militari, il suo potere era unicamente economico. Analogamente, la supremazia americana sull’Europa non ha mai portato a tensioni politico-militare tra America ed Europa, data la comunanza di narrazione.
Gli Stati Uniti è quindi un impero missionario, come lo era del resto l’Unione Sovietica. L’URSS si dava come compito quello di diffondere il comunismo ovunque nel mondo, gli USA si danno ancora il compito di convertire il mondo alla democrazia liberale di stile euro-americano. Certo, questo progetto missionario si interseca continuamente con la Realpolitik, ovvero con i propri interessi nazionali. Dato che le amministrazioni americane sono elette, bisogna quindi convincere una maggioranza di americani che si sta andando nella giusta linea. E questa linea per tanti americani è anche una linea morale.
La grande novità del trumpismo, il suo “America First!”, consiste in questa possibile rinuncia, da parte dell’America, di svolgere un ruolo missionario. Trump dice: “badiamo solo ai nostri interessi! E che il resto del mondo vada pure alla malora”. Tanti americani sono stanchi di essere imperiali, il che significa fare tante guerre. Perché l’impero USA è anche un impero morale. Ma ovviamente, anche un progetto a-morale o im-morale come quello di Trump ha la sua “filosofia”, non si sfugge alla potenza delle idee: un’America egoista e non più salvatrice del mondo sarà un’America bianca, cristiana, xenofoba, non-femminista. Insomma, un’America nazionalista, e sappiamo che il nazionalismo, prima o poi, scivola nella narrazione nazi-fascista.
Se l’America cesserà di seguire una narrazione missionaria, allora davvero ci sarà una svolta epocale. Solo interessi nazionali contro interessi nazionali. Torneremmo allora alla logica politica degli imperi antichi, intendo prima dell’era cristiana. Perché, convertendosi al cristianesimo, gli imperi romani (d’Oriente e d’Occidente) si posero anche come imperi del Bene, come potenze che avrebbero portato la Salvezza sia in questo mondo che nell’aldilà. Una prospettiva certo non impossibile, ma improbabile. Per esempio, gli ultimi decenni hanno reso la questione femminile politicamente significante, mentre prima non lo era. Da ragazzo mi interessai alla storia di Marie Curie, ma non perché, credo, fosse una donna. Certo, il fatto che fosse donna dava al suo caso un interesse supplementare, ma non diversamente dal fatto che Mozart fosse già da bambino un genio della musica. Oggi invece si dà la caccia a tutte le scienziate che, nel corso dei secoli, hanno contribuito a qualche scienza, dimenticate o marginali che loro fossero. L’essere-donna di Marie Curie ha oggi invece una rilevanza politica.
Ma chi dà rilevanza al fatto che un protagonista della storia sia donna?
Evidentemente le femministe. Ma costoro dicono che l’esser donna nella storia è rilevante nella misura in cui la donna è stata storicamente vittima della mentalità patriarcale, insomma, la significatività dell’essere una scienziata deriva dall’Altro, non dagli uomini ma dalla visione patriarcale. Insomma, la significatività di una differenza viene percepita come sempre originata dall’Altro.