1. È almeno dal 1968 che si litiga su un ponte sullo Stretto di Messina, tra chi è pro e chi è contro. Una cosa comunque mi ha colpito: che oggi se si è per il Ponte si è di destra, se si è contro il Ponte si è di sinistra. Non a caso il grande sostenitore della costruzione immediata del Ponte oggi è Matteo Salvini, il leader più a destra d’Italia. Quando anni fa Matteo Renzi, allora primo ministro, considerò questo Ponte, la cosa venne interpretata da tutti come prova infamante del fatto che Renzi fosse in realtà un uomo di destra.
In effetti Il Ponte è una figura etico-filosofica che come tale crea in ciascuno di noi passioni e repulsioni istintive. Come il suo opposto, il Muro. Nella nostra semantica simbolica, Ponte versus Muro. E le loro figure vengono sempre più usate metaforicamente: “Creare un ponte tra le varie generazioni”, “Opporre un muro alla volontà di dialogo”…
Il Muro viene visto inequivocabilmente come tropo “di destra”. Anche se pensiamo subito a un muro comunista, quello di Berlino; tutti abbiamo festeggiato la sua caduta nel 1989. O il Muro costruito dagli israeliani per separare la Cisgiordania da Israele, barriera abbietta che però ha impedito lo straripare del terrorismo in Israele (dalla parte cisgiordana; dalla parte di Gaza, come sappiamo, è tutt’altra cosa). O il Muro che Trump voleva costruire tra Messico e Stati Uniti per impedire l’immigrazione illegale in US. Alzare un muro è un atto difensivo, ma anche atto di sfida ostile, muso duro contro chi ci minaccia.
Al contrario il Ponte svolge la figura del Bene, della concordia, della volontà di dialogo, di comunicazione tra parti, copula simil-sessuale della congiunzione, il lato buono della metafora fallica. Oggi oltre che di Ponte si parla anche di Galleria che unisce. Si pensa al Chunnel, il tunnel sotto la Manica che unisce due paesi che si fecero la guerra per cento anni, tempo fa. Ammetto di non conoscere le ragioni tecniche per cui il Ponte sullo Stretto è stato preferito all’ipotesi della galleria sotto lo Stretto. Insomma, il Muro divide, il Ponte-o-Galleria unisce.
2. Ma, per una strana rotazione del senso, nel caso del Ponte dello Stretto di Messina i significati si sono rovesciati. È come per la TAV (Treno ad Alta Velocità) in Val di Susa. Anche qui, stranamente, si è per la TAV se si è di destra, si è contro se si è di sinistra. Anche se la TAV, sostituendo il treno elettrico a un’autostrada dove ci passano tanti camion inquinanti, dovrebbe apparire come più ecologica (quindi, più di sinistra) delle strade. Segno che altri strati significanti si aggiungono all’opposizione semplice Muro versus Ponte.
Comunque due premesse sono essenziali affinché il mio articolo venga letto con un minimo di relax:
- SONO UN CONVINTO ECOLOGISTA, direi addirittura un “gretino” (come vengono chiamati i simpatizzanti di Greta Thunberg). Penso che salvare il pianeta dalla depredazione umana sia uno degli obiettivi politici essenziali della nostra epoca;
- DETESTO SALVINI ovvero la sua politica, non sono nazionalista né sovranista, non mi interessa il primato dell’Italia in nessun campo.
Chiarito questo, dirò come vedo la faccenda del Ponte.
Di solito ogni campo si appella a esperti. Immagino che persino i terrapiattisti abbiano i loro esperti che gettano sospetti sulla teoria sferica della Terra. Così come i negazionisti dell’Olocausto considerano sé stessi storici seri in perfetta buona fede quando dicono che lo sterminio nazista è una balla o un’esagerazione. Sono convinti di avere prove schiaccianti di questo. In ogni campo scientifico c’è qualche laureato bislacco che va del tutto controcorrente, immagino che esistano da qualche parte anche dei fisici teorici che confutino la teoria della relatività di Einstein. E che magari diventano star grazie a qualche tv locale. Così, c’è una percentuale molto bassa di scienziati che negano l’effetto-serra e il surriscaldamento del pianeta, anche se ovviamente sono super-intervistati dai negazionisti del clima. Il punto è che noi profani non sappiamo distinguere tra “esperti”, esperti ed Esperti, ragion per cui possiamo credere anche a degli “storici” i quali dicono che Auschwitz era una specie di villeggiatura.
Quindi, non essendo un esperto della querelle del Ponte sullo Stretto, non mi pronuncerò se bisogna farlo o meno, lascio la questione agli esperti – con o senza virgolette. Ma il punto non sono gli argomenti, il vero punto è ciò che c’è dietro agli argomenti. Vale a dire le passioni politiche, per lo più immaginarie, che ci agitano. Tutti noi reagiamo agli eventi secondo certi paradigmi, che restano abbastanza fissi – certi non li cambiano per tutta la vita. Gli argomenti che si portano in un dibattito sono spesso pretestuosi, trovano il pelo nell’uovo, proprio come i negazionisti dell’Olocausto, che di peli nell’uovo ne trovano tanti. Mi interessa qui, dunque, non discutere gli argomenti – dovrei dedicare almeno un anno a studiare la faccenda da ogni punto di vista (ingegneristico, finanziario, politico, ambientale…) e francamente ho cose più urgenti da fare che occuparmi di questo. Mi interessano qui non gli argomenti ma la visione di fondo di chi si oppone al Ponte. Ovviamente, un’analisi del genere si può fare anche su chi è favorevole al Ponte in modo pregiudiziale.
A differenza di me, che mi dichiaro subito incompetente, molti che sono altrettanto incompetenti di me, o anche più di me, si dicono perfettamente convinti delle ragioni contro il Ponte. Nell’uovo-Ponte trovano tanti peli da poterne fare una frittata. Per esempio, dicono che il Ponte costa troppo, o la sua manutenzione costerebbe troppo, e che sarebbe meglio spendere quei soldi per rimettere in sesto le fatiscenti linee ferroviarie siciliane. Che il Ponte possa costare troppo oggi, posso capirlo in tempi di austerity; ma che costi troppo sempre, questo mi sembra stravagante. Si tratta di investimenti, che danno i loro frutti economici col tempo. Il calcolo sensato è quello che permette di quantificare i costi dei traghetti Calabria-Sicilia oggi e i costi dei passaggi sul Ponte poi. Se, come mi sembra probabile, andare in Sicilia col Ponte costerà meno a tutti, credo che il vantaggio economico su tempi lunghi non possa essere negato. Certamente in ogni conto di costi e ricavi c’è sempre un fattore di rischio, l’imprevedibile.
Ma di solito queste ragioni tecniche sono solo maschere, perché chi le avanza non conosce di solito gli aspetti tecnici del progetto.
4. Ricordo che quando, negli anni 1970, si parlava della galleria sotto la Manica, la maggior parte dei miei amici inglesi – tutti di sinistra – vi si opponeva fieramente per ragioni ecologiche, ovvero estetiche: la galleria avrebbe deturpato la costa dello stretto di Dover. In realtà, da quando nel 1994 i servizi di trasporto del tunnel sono entrati in funzione, nessuno si lamenta di deturpazioni, che di fatto erano immaginarie. Ma allora, quale riflesso culturalmente condizionato ha fatto subito pensare che un’opera d’ingegneria, anche se invisibile come quella del Chunnel, fosse di per sé una sciagura? Le persone di sinistra amano definirsi “progressiste”, ma spesso sono pregiudizialmente contro il progresso tecnologico. Che implicazione c’è tra le due cose, l’essere rivoluzionari in politica e conservatori in ambientalità?
Cerco di ricordarmi perché da giovane – vivevo a Parigi – ero assolutamente contrario a tutti i progetti di innovazione della città. Non solo ero di estrema sinistra, ero entusiasta delle avanguardie artistiche più radicali e dissacranti. Eppure, negli anni 1970 ho pianto lo smantellamento delle Halles parigine (i mercati generali) al centro della città, a cui ero molto affezionato anche perché avevo abitato in quel quartiere.
E quando guardai il progetto del Centro Beaubourg di Piano e Rogers, che avrebbe preso il posto del quartiere vicino alle Halles, gridai all’eresia: che c’entrava una costruzione così modernista, una macchina intricata, col contesto ottocentesco di quel quartiere? E gran parte degli intellettuali di sinistra la pensava allo stesso modo: guai cambiare qualcosa della vecchia cara sporca Parigi!
Negli anni 1960 ci fu un’interminabile diatriba sulle tre porte del Duomo di Orvieto. Questa chiesa, in effetti, non aveva portali degni di questo nome, ragion per cui fu indetto un concorso. Lo vinse nel 1962 lo scultore Emilio Greco. All’epoca si scatenò una campagna da parte dei media di sinistra contro questo progetto: si attaccava non la qualità dell’opera di Greco, quanto l’idea stessa che quel tempio dovesse essere arricchito, cioè modificato, da un intervento moderno[2]. Prevaleva tra gli storici e critici d’arte di sinistra un’idea completamente conservazionista: non toccare nulla delle opere storiche. Anche allora si parlò di sfregio di un capolavoro.
Che si tratti di non modificare un paesaggio naturale o di non modificare un assetto urbano antico, c’è un riflesso conservatore in tanta intellighèntzia. Perché almeno su questo aspetto la sinistra radicale risulta più conservatrice di tanta destra intellettuale? E auto-analizzando come la pensavo all’epoca, forse alla fine ho capito.
Essere di sinistra, anche se si apprezzano le avanguardie artistiche più scapigliate, significa essere profondamente pessimisti su quel che può produrre il capitalismo, che è poi la modernità tout court. Si possono anche riconoscere come grandi dei singoli architetti moderni – Le Corbusier, Aalto, Wright, Gropius… – ma la città moderna, essendo capitalistica, è vista come intrinsecamente brutta. Perché la città moderna è all’insegna del capitale, dell’industrializzazione, del mercato, dell’avidità… Una mia amica newyorkese molto leftist che viveva a New York e la amava, aggiungeva però “si, comunque è l’idea di New York a essere sbagliata”. Ovvero una città basata sui grattacieli – che è lo sfruttamento massimale delle costose aree edificabili – e sulla fluidità del traffico automobilistico. Modello di bellezza per lei erano città europee come Bruges, Venezia, Amsterdam, Lisbona… anche se queste città erano i grandi empori mercantili dell’epoca in cui sono fiorite. Il rigetto del capitalismo industriale in cui viviamo fa emergere in controluce tutto il passato pre-capitalista come un Paradiso perduto o quasi, anche se le società pre-capitaliste erano lungi dall’essere egualitarie. In questo modo la visione “progressista” della società, assorbendo una Vulgata ecologista anti-industriale, si allinea con la visione tradizionalista che aborrisce la modernità. Al contrario di Marinetti – appunto, Marinetti non era fascista? – che voleva distruggere Venezia per costruirci delle fabbriche, l’intellettuale di sinistra vorrebbe distruggere una città industriale come Detroit e farne una nuova Venezia. Ed è forse questo sogno inconfessabile – trasformare una fabbrica in teatro di Epidauro – che guida le varie ristrutturazioni di vecchi opifici in luoghi per arte e cultura, come si è fatto col teatro india a Roma, la Modern Tate a Londra, Mirafiori a Torino, o come SoHo a New York, che ha visto un quartiere di piccole fabbriche trasformarsi in loft per artisti. In questa conversione, non si demolisce la fabbrica ma la si sfrutta come luogo di piacere e otium culturale.
3. Quando non si vuole fare qualcosa, si dice sempre “perché invece non facciamo quest’altro?” Se uno dice “spendiamo soldi per costruire più ospedali” mettiamo, e un altro è contrario per ragioni sue, quest’altro dirà sempre “e perché non spendiamo questi soldi per rendere più agibili le scuole? Perché non per diminuire le tasse? Perché non per finanziare l’opera lirica?….” Ogni scelta di spesa implica sempre escludere altre spese. La politica ha da decidere su spese che, di solito, tutti considerano utili. A parte forse le spese per gli armamenti. Dire “spendiamo per altro” implica la dimostrazione che certe spese sono più utili di altre. Ma appunto, è questo che bisogna dimostrare. Penso che il Ponte sullo Stretto e il miglioramento della rete ferroviaria e stradale della Sicilia siano due atti complementari, che andrebbero nello stesso titolo di spese.
Ma la sola ragione veramente sincera di opposizione al Ponte è di ordine estetico. O meglio, le preferenze estetiche sono quelle che rimandano alla ragione fondamentale. Quando si tratta di estetica, pensiamo che non ci sia bisogno di specialisti, tutti ci consideriamo abbastanza esperti per giudicare del valore estetico di qualcosa. È evidente che chi è contro il Ponte lo vede brutto. Non brutto quel ponte che è stato scelto dopo un concorso (quello del consorzio Eurolink[1]), ma brutta l’idea stessa di mettere un ponte in un braccio di mare che non ne ha mai avuti. Lo ha detto chiaramente Michele Ainis:
“La Costituzione subisce una ferita nella norma – celeberrima – che promette la tutela del paesaggio. Che ne sarà di quel tratto di mare, con una cicatrice nera a sfregiare l’orizzonte? Lo Stato italiano ha appena riformato l’articolo 9 della Costituzione, per rafforzare la tutela del paesaggio, e con quest’impresa diventa il primo nemico del paesaggio”.
La costruzione del Ponte gli appare addirittura anti-costituzionale, anche se si tratta di sapere che cosa appunto “ferisca” un paesaggio.
Lasciamo stare i ponti urbani, che sono parte del tessuto di una città, consideriamo i ponti extra-urbani. E consideriamo solo i ponti dell’era detta contemporanea, dal XVIII° secolo in poi. Un ponte famoso come il Golden Gate Bridge della Baia di San Francisco, tutto rosso, deturpa quel pezzo di baia?
Deturpa la regione dell’Elba il bellissimo ponte Bastei in Sassonia, costruito nel 1851?
Deturpa il fiume Hàn il ponte del Dragone, che imita appunto un drago, vicino Da Nang in Vietnam?
O il delizioso ponte Konitsa sul fiume Aoos in Grecia, costruito nel 1870 ma che sembra costruito dai Dori?…
Potrei continuare.
Al limite, possiamo dire che Venezia oggi deturpa la laguna in cui è stata costruita? Certo che posso dirlo. Ma è una ragione valida per demolire Venezia?
C’è sempre opposizione tra natura ed edificazione umana? Una costruzione umana come un ponte può creare scorci imprevisti in una zona selvaggia, così come l’introduzione di elementi selvatici può dare un valore estetico nuovo a una costruzione. In uno degli edifici più famosi della modernità, il Fallingwater House di F. Lloyd Wright, è la cascata e la gola a dare quel fascino singolare alla villa di Wright o è la villa di Wright a dare un’impronta speciale a quel pezzo di natura?
Del resto, la stessa natura incontaminata – là dove ancora esiste – è pur sempre opera di costruzione: effetto di dighe, canalizzazioni, caccia selettiva degli animali che contiene, politiche di rimboschimento o di disboscamento… L’industria umana permea segretamente ciò che ci appare naturale, e la costruzione culturale sfrutta i suggerimenti dati dalla natura. Per esempio, nel ponte Bastei riprodotto più sopra, è la natura rocciosa circostante che dà al ponte tutta la sua bellezza, o è il contrario? Venezia abbellisce la laguna o è la laguna ad abbellire Venezia? Il battibecco tra natura e costruzione può essere delizioso.
Questa implicazione, spesso segreta, tra natura e costruzione umana è particolarmente coltivata nel paesaggio giapponese. Qui è spesso difficile dire fino a che punto qualcosa sia naturale o culturale. Da qui l’amore giapponese per il bambù, oggetto vegetale che evoca i piloni o i tubi industriali. E se siamo catturati dalla scena di alcune fronde di un albero che cadono fin quasi a toccare l’acqua del canale o del torrente, è frutto del caso o dell’arte? Qui l’arte sembra accadere come puro accidente naturale, e l’apparente casualità di un evento naturale è in effetti studiato ad arte.
Ovviamente non voglio mettere a confronto estetico il progetto Eurolink con questi esempi sublimi di ponticità.
5. Per tornare al Ponte sullo Stretto. Quel che rende poco convincenti gli argomenti di molti “esperti” – di cui non si sa se siano Esperti – contro la costruzione del Ponte è che dietro ragioni apparentemente pragmatiche, concrete, si percepiscono presupposti simbolici, viscere narrative. Come del resto è nella maggior parte dei dibattiti politici, dove la ragioni del contrasto risultano alla fin fine squisitamente simboliche. Con questo non voglio dire affatto che, essendo diatribe simboliche, non producano effetti reali! Altroché, le contrapposizioni simboliche possono produrre ecatombi di morti e distruzioni. Il nazismo e la guerra che ne conseguì non erano dopo tutto il prodotto di un delirio simbolico? Le guerre di religione che insanguinarono l’Europa nel XVI° e XVII° secolo non erano guerre a sfondo simbolico?
Chi vuole a ogni costo il Ponte non si interessa molto, credo, allo sviluppo economico della Sicilia, ma scommette su una posta simbolica: l’orgoglio italiano di aver costruito il ponte a una campata più lungo del mondo, e progettato da un consorzio italiano. L’unire simbolicamente l’Italia da sempre divisa tra Mezzogiorno e A-Nord-del-Mezzogiorno. Celebrare plasticamente il trionfo di un capitalismo produttivo, grandioso, efficiente, spettacolare. Insomma, le ragioni profonde per costruirlo sono essenzialmente sciocchezze.
Ma non sono meno sciocchezze le ragioni che portano a demolire il Ponte ancor prima di averlo costruito. Li chiamiamo i tristi sospiri dei “progressisti”: incidere sempre meno sulla natura; tornare a una vista ottocentesca, pre-industriale, dei paesaggi; umiliare l’arroganza capitalista che sconvolge gli assetti naturali; diffidare dell’alta tecnologia e tornare a un romantico artigianato… Anche in questo caso, il maggior benessere dei siciliani non interessa affatto.
O meglio, il benessere a cui si tende è un benessere narrativo, ideologico si diceva un tempo. O, per parafrasare la psicologia cognitivista di oggi, si tende a una consonanza narrativa. Per lo più viviamo tutti in un mondo fatto di racconti che prendiamo per “fatti”, e la realtà deve accordarsi sempre ai nostri racconti. Il Ponte sullo Stretto è una dissonanza, una stecca, nella narrazione di tanta sinistra.