L'inclinazione filosofica

Il dialogo, la grande illusione

“La ragione si dà sempre al fesso”

1. Utero o cicogna?

In un articolo del 1979 [1] Elvio Fachinelli evocava l’esperienza di una amica psicoanalista. All’età giusta suo figlio le aveva posto la fatidica domanda “da dove vengono i bambini?” Al che la signora aveva risposto come oggi si deve, ovvero dicendogli la verità: il coito tra maschio e femmina, ecc.  La madre perciò si stupì quando il figlio, parlandone con coetanei che invece credevano nella cicogna, si convinse che avessero ragione i coetanei. A proposito di questa detronizzazione del sapere adulto, Fachinelli pone le domande giuste.

Egli nota – andando in controtendenza rispetto a un matricentrismo che imperversa tra gli analisti – che per un bambino è più importante essere in accordo con i propri pari che con i propri adulti. L’infanzia è assetata di conformità, non rispetto alle regole dei grandi, ma rispetto agli altri bambini. Quando la lingua materna è diversa da quella ambientale, i bambini preferiscono parlare la lingua ambientale, quella degli altri bambini. Il piccolo d’uomo odia distinguersi dai propri pari, e se i genitori pretendono di distinguerlo – per esempio, dicendogli che la sua famiglia è atea, mentre le altre sono credenti – il fanciullo si copre di vergogna.

Inoltre, nota Fachinelli, la madre illuminista non coglie il fatto che, forse, nella domanda “da dove vengono i bambini?” non c’è semplicemente una richiesta di conoscere una causa fisica, quanto una domanda in fondo metafisica “Donde veniamo? Dove andiamo? Perché siamo qui?” I bambini usano spesso termini concreti per esprimere concetti che noi esprimeremmo con termini filosofici. Ricordo bene che da bambino chiedevo stranito agli adulti “come è possibile che abbiamo tutti una pelle?” Volevo dire con questo “come è possibile che ciascuno si senta un io, dato che io solo mi sento un io?…” Attraverso il concetto di pelle intendevo il sentire sé stessi. Esprimevo in quel modo la questione filosofica fondamentale del solipsismo.

Noto poi un elemento che Fachinelli non rileva. Molto probabilmente la preferenza del bambino per il racconto della cicogna era anche un modo obliquo di contestare il sapere autorevole degli adulti. Una contestazione che diventa esplicita e talvolta programmatica nell’adolescenza, dato che il teen ager ha bisogno di liberarsi il più possibile dell’autorevolezza genitoriale. Vediamo nell’infanzia in nuce quel che oggi si chiama populismo. Gran parte del populismo è il popolo-bambino che per emanciparsi ha bisogno di disprezzare l’adulto-che-ha-potere. Quando Fachinelli sperimentava forme pedagogiche anti-autoritarie nell’asilo di Porta Ticinese, allora l’autorità coincideva con un autoritarismo repressivo. Ma oggi il popolo-bambino si rivolta contro coloro che sono autorevoli. È ben diverso.

Resta però la domanda: perché tra i due racconti – quello scientifico della fecondazione e quello puerile della cicogna – alcuni bambini preferiscono il secondo? Forse che la cicogna ha un’aria più attraente dell’unione tra un maschio e una femmina? Del resto i bambini di oggi hanno visto cicogne solo nei video.

2. Dialogo tra chi disprezza

La questione posta da Fachinelli – che gli analisti di solito accantonano nell’angolo delle “teorie sessuali infantili” – assume invece una dimensione inquietante, unheimlich, cosmica, se a poco a poco la spostiamo dalla divergenza ‘racconto infantile versus racconto adulto’ alla divergenza ben più problematica ‘racconto adulto autorevole versus racconto adulto non-autorevole’.

La differenza di autorità tra adulti e bambini si ripropone tra adulti quando si mettono a confronto “persone colte” con “quelli che non hanno studiato”, la gente del popolo. Persone colte siete voi che mi state leggendo, altrimenti non stareste leggendo questo testo. Gli altri, “la gente di poca cultura”, sono in opposizione a “gente colta come noi” in modo isomorfo a come i bambini sono in opposizione agli adulti. Questo isomorfismo è molto poco politicamente corretto, ma tutti sappiamo che è così: non è vero che tutte le opinioni siano di egual valore per noi, alcune sono autorevoli, altre per nulla. Se l’autoritarismo non è democratico, non lo è nemmeno l’autorevolezza.

E in effetti, quando parliamo con persone poco autorevoli – o leggiamo quello che scrivono nelle chat e nei social – ne sentiamo di belle: disseminazione di fake news, teorie complottiste, scempiaggini di ogni tipo, cliché dati come grandi rivelazioni, rispetto a cui il mito della cicogna appare una credenza ben più matura. Churchill confessò che il migliore argomento contro la democrazia era parlare di politica con un elettore qualsiasi per cinque minuti.

Si sa che una certa porzione della popolazione dei paesi occidentali è terrapiattista, un’altra larga parte è tolemaica, un’altra parte non crede nell’evoluzione darwiniana. Centinaia di milioni di esseri umani credono nella presenza degli UFO, pensano che l’approdo dell’uomo sulla luna nel 1969 sia stato una bufala, che l’11 settembre 2001 fu un complotto della CIA… Constato quanto “le persone che non hanno studiato” siano vittime elettive di imbonitori, truffatori, millantatori, capetti carismatici, sette stravaganti o furfantesche, arruffapopolo da strapazzo, ecc. La nostra filosofia democratica ci prescrive di non negare il dialogo a nessuno, ma di fatto tutti noi – intendo, chi mi legge – non dialoghiamo con certe persone. Sappiamo che sarebbe solo tempo perso.

Ora, l’opposizione veramente inquietante, tema tabù perché si viene subito sospettati di superba arroganza, è quando spesso dissentiamo dai nostri pari, le persone colte. In questo caso viene a crearsi un’opposizione tra ’io-autorità versus altro-imbecille’. Mi riferisco al fatto che, se abbiamo opinioni forti e convinzioni a cui teniamo, i nostri pari che la pensano del tutto diversamente non ci appaiono affatto “pari”, anzi, tendiamo a considerarli spregevoli. Raramente usiamo in pubblico termini sprezzanti parlando di chi non la pensa come noi, ma sono i termini che diciamo a noi stessi o ai nostri intimi. Ci sono pari che ammiriamo ma anche tanti pari che disprezziamo. Non pensiamo che abbia senso dialogare con costoro, dato che li vediamo chiusi nella prigione della loro imbecillità.

Spesso questo disprezzo è reciproco, altre volte invece non lo è. Conosciamo tanti casi in cui A stima B ma al contrario B non stima affatto A, il che crea non pochi problemi a B, dato che di solito non vuole dissolvere la stima che A gli porta. Direi che spesso essere ammirati da persone che non stimiamo ci delude e ci irrita, come per molte donne essere corteggiate da uomini vecchi e brutti.

Si dirà che tra l’ammirazione e il disprezzo per i propri pari c’è tutta una gamma di valutazioni, ma mi si permetta di dicotomizzare qui per ragioni di semplicità. Solo nel privato confidiamo il nostro disprezzo per alcune persone. Talvolta mi ha sbalordito sentire che cosa certi miei amici pensassero di loro pari con cui magari avevano avuto un dibattito pubblico cortese e rispettoso: che fossero niente di più che degli imbecilli. Il punto è questo: non è che uno è idiota e quindi non è d’accordo con noi, l’idiota è sempre chi non è d’accordo con noi.

Molti pensano di essere autorevoli nei campi in cui hanno delle opinioni forti. Anche io faccio parte di questi molti, negarlo sarebbe ipocrita. C’è una megalomania indispensabile nel discorso sociale in generale. Chi non è megalomane, chi non è convinto di avere ragione, non entra nemmeno in un dialogo. Chiunque eserciti una leadership, anche solo intellettuale, non può essere che un megalomane. Anzi, è questa megalomania a convincere veramente gli altri. La maggior parte delle persone non ha gli strumenti intellettuali e concettuali per analizzare in modo approfondito le varie idee (politiche, filosofiche, estetiche, scientifiche, ecc.) che si battono nella grande giostra delle discussioni collettive, è sensibile però alla forza con cui certe persone sostengono le proprie idee, e finiscono col convincersene. Prima di ogni persuasione intellettuale, c’è la seduzione, soprattutto quella della forza. Molto spesso basta l’apparenza della forza, la sua semplice esibizione.

Ne ho avuto spesso l’evidenza quando alcune persone del tutto estranee ad un certo campo, ad esempio filosofico, per una qualche coincidenza hanno assistito a conferenze di filosofi ottimi parlatori. Anche se queste persone hanno capito ben poco del contenuto della conferenza, ovviamente, si sono dette entusiaste di questi filosofi. È come se le parole anche filosofiche avessero una certa musica, che piace anche a chi non la capisce. Soprattutto, quel che convince è il tono deciso che accompagna i discorsi di questi intellettuali. Del resto, la musica ci affascina proprio perché non la capiamo: è il suo mistero che ci seduce.

Mi chiedo spesso come facciano tanti mediocri a dirsi seguaci di pensatori molto complessi e raffinati, ci si chiede “come fa costui, costei a capire il pensatore di cui si dice entusiasta?” Ovviamente anche la persona più stupida è convinta di capire il suo maestro, insomma è in buona fede.

3. Chi ci dà autorità?

Certamente non disprezziamo tutte le persone che non la pensano come noi. Ci sono controversie tra persone che si stimano. Il solo fatto di impegnarsi in una controversia è un riconoscimento della dignità dell’altro, dato che le idee che consideriamo del tutto stupide non sono nemmeno degne di essere discusse. Sarebbe come se un astronomo accademico si mettesse a discutere con un terrapiattista. Come il proverbio napoletano che dà il titolo a questo scritto, quando non si considera l’altro degno di essere confutato, gli si dice bonariamente “bravo, hai ragione tu” e magari si aggiunge pure un colpetto con la mano sulle sue spalle. (Ovviamente si può apprezzare qualcuno come persona in toto, trovarla moralmente stimabile, ma poi disprezzarne certe idee.)

Alcuni credono che gli scienziati, quando dibattono, reciprocamente si stimino. Ma non è sempre così. Ho potuto conoscere molto bene, nel privato, molti scienziati, e so che anche tra loro fiorisce il disprezzo per certi colleghi, talvolta anche famosi, potenti… Quando si lavora in un campo intellettuale, anche in un campo “esatto”, la disistima per certi colleghi è assolutamente inevitabile.

Si dirà che il sentimento di disprezzo per chi non la pensa come noi non ha nulla a che vedere con la questione della credenza nella cicogna, dato che certo non disprezziamo i bambini che vi credono. Ma il punto è che i nostri pari non sono bambini, e non sono nemmeno persone ignoranti che non hanno avuto opportunità di studiare. Sono persone che dovrebbero essere adulte e autorevoli come noi pensiamo di esserlo, ma da quello che dicono o scrivono per noi non sono veramente adulte (ovvero intellettualmente mature) né autorevoli. George Orwell diceva che la cultura può diventare pericolosissima se se ne appropriano gli imbecilli. Non c’è nulla di peggio degli intellettuali stupidi. Molto meglio discutere con un ignorante intelligente.

Il punto è che il disprezzo per certi pari non ha il conforto di alcun appoggio oggettivo. L’adulto può pensare che lei o lui ha ragione e il bambino ha torto perché c’è una asimmetria biologica. La persona colta che svolge una professione intellettuale prestigiosa può legittimamente pensare che è stato formato in buone scuole mentre il manovale complottista no. Ma quando non concordo con i miei pari, nessuna auctoritas mi garantisce che abbia ragione io: l’autorità mi viene solo da me stesso.

In latino auctoritas significava generalmente legittimità, da auctor, autore. L’auctoritas è quella che dà legittimità, in questo caso a certe opinioni. Ma appunto, tra pari nessuna idea o credenza è più legittima di un’altra. La vera autorità viene in ultima istanza solo da sé stessi, quindi possiamo dire che, nel fondo, la vera autorità è solo quella che esercitiamo su noi stessi. La vera autorità è la nostra necessaria auto-infatuazione[2].

La questione veramente filosofica, allora, è la stessa che si poneva Fachinelli a proposito del racconto della cicogna: che cosa spinge l’altro a sostenere idee per me così evidentemente sballate? La stupidità dell’altro non spiega nulla. È la stupidità che va spiegata, non è essa a spiegare.

4. In effetti, se volessi rimanere nella correttezza filosofica, dovrei dire che si deve essere capaci di dialogare con tutti, nel senso che dobbiamo cercare di argomentare razionalmente con chiunque non la pensi come noi, al di là del suo titolo di studio. Di solito si invoca l’etica del dialogo socratico… anche se in realtà la conversazione socratica era una pratica lontana da quel che oggi chiamiamo dialogo o anche dibattito delle idee. Di fatto Socrate parlava sempre con sé stesso anche se aveva bisogno dell’assenso dell’altro, come di un semaforo per andare avanti. E soprattutto certo Socrate non parlava con chiunque! I dialoghi platonici si svolgono tra i VIP intellettuali e politici della vita ateniese dell’epoca, più qualche giovane intelligente proveniente dalle famiglie più in vista e più ricche della città.

Discutere con i pari di cui disprezziamo le idee? Sappiamo bene che di solito il dialogo, la discussione, il dibattito, conducono a un vicolo cieco. Ciascuno pensa di essere uscito vittorioso dalla discussione, e se ha la sensazione che il proprio contraddittore sia stato più abile, penserà sempre “non ho avuto modo di spiegarmi bene”, “non mi ha lasciato parlare…” e simili. Il dialogo intellettuale non porta mai veramente a convincere l’altro, che resterà “stupido”, ovvero continuerà a pensare quel che pensava prima[3]. Di solito il cosiddetto dialogo si risolve in un reciproco parlare ai muri.

Nel XX° secolo si è sviluppata tutta una filosofia, in particolare francofortese, del dialogo come fondamento ultimo della razionalità filosofica, “la comunità dell’agire comunicativo” di Habermas, ecc. Insomma, il confronto delle idee avrebbe senso perché esisterebbero alcune regole a priori dello scambio intellettuale. Francamente ho considerato questa filosofia sempre una sciocchezza (anche se non dovrei dirlo!), per essa quella che considero la rivoluzione nietzscheana-freudiana-batailliana è lettera morta. Il dialogo è solo una convenzione protocollare. La discussione è piuttosto un duello, in un vero dibattito si confrontano paradigmi radicalmente diversi che spesso non hanno in comune alcun elemento… La filosofia del dialogo mi sembra la filosofia di avvocati dell’ONU o dell’UNESCO, equivale a dire che le guerre sono possibili solo a partire dalla Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra!

Tutto quel che sto dicendo gode comunque della proprietà commutativa: so bene che tutto il disprezzo che posso sentire per certi miei pari perché a mio avviso sono del tutto fuori strada, è lo stesso disprezzo che tanti miei pari sentono nei miei confronti. So che tanti detestano quel che dico e scrivo, anche se non lo dicono apertamente.

Molto spesso questo discredito dell’altro si mostra chiaramente nelle discussioni vis-à-vis. Quando l’altro pensa che tu stia dicendo qualcosa di stupido o banale arriva persino a raccogliere un giornale e comincia a leggerlo ostentatamente… Oppure, gesto inequivocabile, guarda l’orologio. Mi sono sempre chiesto se si compie questo gesto per comunicare chiaramente all’altro il messaggio “taglia!”, oppure se un’urgenza inconscia ci spinge a voler sapere l’ora proprio quando pensiamo che stiamo perdendo tempo nell’ascoltare l’altro. L’altro, se non porta l’orologio, spesso si mette a ridere, è un riso di scherno che però vuole spacciarsi come stupido, ingenuo, come a dire all’altro “dici cose talmente cretine che mi rincretinisci!” È un riso disperato. In altri casi si mostra piuttosto imbarazzo, e si cerca di cambiare argomento. Devo dire che pochi sono talmente bravi da dissimulare del tutto il loro disappunto quando l’altro dice stupidaggini.

5. Torniamo al caso delle teorie infantili sull’origine dei bambini. Evidentemente sia il racconto del coito generativo che quello della cicogna sono saperi che vengono dall’Altro. Nessun bambino arriverebbe da solo a concepire il mito della cicogna, è sempre l’Altro a sapere e a trasmetterci il sapere. Si tratta di sapere solo chi è l’Altro autorevole. La mamma o i bambini come lui? In questo, la posizione di ogni bambino nei confronti del sapere è del tutto identica a quella di qualsiasi adulto, foss’anche un dotto. L’ingenua teoria illuminista secondo la quale dovremmo basare le nostre credenze solo sul pensiero critico, solo su quello che siamo in grado di scoprire e dimostrare, è assolutamente impraticabile: quasi tutto il sapere ci viene dall’Altro. Di solito, abbiamo accesso a fonti di prima mano solo nel campo di cui siamo specialisti, per il resto dobbiamo credere alle chiacchiere di altri. Ma appunto, spesso i saperi confliggono, nel senso che a nostra volta dobbiamo scegliere a quale Altro riconoscere autorevolezza.

Un tempo nell’Europa cristiana l’Altro più autorevole era la chiesa: la dottrina cristiana niceana era l’ultima parola sulle cose essenziali. In epoca di razionalismo scientifico, molti oggi pensano che gli unici saperi di cui possiamo fidarci siano quelli accettati dalla comunità scientifica. Ora però l’autorevolezza del sapere scientifico è strettamente connessa al fatto che oggi in quasi tutte le scienze naturali o hard regna quella che T.S. Kuhn chiamò “scienza normale”, ovvero un sostanziale consenso tra i ricercatori su gran parte di quel che è ammesso come “sapere scientifico”. Uno di noi può praticare una certa scienza, ma poi di fatto in tutti gli altri campi si fida di quel che “gli scienziati dicono oggi”. Anche io mi comporto così. Dopo tutto, non ho alcuna ragione particolare per dubitare dell’immagine dell’universo che ci danno la fisica, la cosmologia, la chimica, la biologia moderne. So bene che le teorie cambieranno, ma per ora non ho nessun motivo plausibile per dubitare della verità della teoria di Einstein, della meccanica quantistica, del fatto che esistano buchi neri e raggi cosmici, che il DNA è fatto a doppia elica… Grosso modo, mi fido degli scienziati. E trovo del tutto puerile, da parte di persone che non fanno parte della comunità scientifica, contestare il sapere scientifico di oggi; è populismo intellettuale.

Ma questo accade per le scienze dette naturali perché, in fin dei conti, delle verità naturali non ce ne importa quasi niente. Dopo tutto, sapere che il sole stia al centro del sistema e non la terra, non ci cambia nulla della nostra vita. Una teorioa astronomica può interessarci per i suoi risvolti pratici, tecnologici, ma la verità naturalista di solito non ci dice nulla di importante, nel senso che non offre alcuna direttiva esplicita o implicita su come vivere.

Ben diverso è quando dobbiamo costruire un sapere su noi esseri umani. Allora tutto cambia: la verità può cambiarci la vita. Sapere se è possibile una società egualitaria oppure no, se le donne hanno le stesse capacità e possibilità degli uomini, se i bambini riescono meglio con un’educazione severa o col laissez-faire, se possiamo credere in una divinità o meno… ecco cose che invece ci riguardano al massimo grado, che ci coinvolgono in prima persona. Esse sono studiate oggi dalle scienze dette umane, o della mente, o della società… e si dice continuamente che si tratta di scienze molli, non esatte, non rigorose. Non sono esatte anche perché i loro temi ci riguardano tutti al massimo grado – non possiamo essere esatti con ciò che si ama o si odia. Uno scienziato che studia l’atomo non è un atomo, mentre uno che studi la sessualità umana o la libertà di espressione ha una sessualità e ha bisogno della libertà di espressione. Le scienze dette umane sono anche sempre auto-referenziali. Suol dirsi che in questo caso il discorso delle spiegazioni cede il posto alle interpretazioni. Sostanzialmente, diciamo che qualcosa è un’interpretazione perché non gode del consenso universale di color che sanno. Il concetto di interpretazione implica la pluralità di interpretazioni. Interpretare è sospendere l’unanimità.

6. La domanda interessante è perché certe teorie che per noi sono bislacche e super-confutate suscitino tante passioni, una sorta di ferrea militanza. Che cosa è in gioco nell’inconscio quando uno crede in una teoria discreditata? Ecco qualcosa che nessuno ha tentato finora. Fachinelli è convincente quando dice che il bambino preferisce la teoria della cicogna a quella dell’incontro seme-uovo perché vuol essere in sintonia col gruppo dei pari. Ma quale esigenza non detta spinge tante persone di livello culturale non basso non solo a credere in una teoria infondata, ma a diventarne paladini? Non dico quali teorie popolari io pensi siano infondate – ciascuno di noi è convinto che le teorie opposte alle proprie siano del tutto infondate.

Non dico affatto che le superstizioni, in particolare quelle religiose, siano appannaggio delle anime semplici (leggi: delle persone di basso livello sociale), mentre le classi culturalmente elevate sarebbero campioni della razionalità.  Ci sono superstizioni tipiche di ogni classe sociale (ammesso e non concesso che esista qualcosa di così preciso e determinato come una classe sociale). Lourdes è una superstizione tipica de ceti medio-bassi, la …. è per me una superstizione tipica dei ceti medio-alti. Questo in tutti i campi, anche in quello politico. Oggi nei paesi più industrializzati la tipica narrazione superstiziosa delle persone poco colte è “i politici sono tutti corrotti! Ci rubano tutto”, mentre la tipica narrazione degli intellettuali da campus è “il mondo moderno è egemonizzato dall’ideologia neoliberale che colpevolizza i perdenti”. Sono cliché moderni sostenuti da persone tra loro molto diverse, ma entrambi sono cliché che esprimono a livelli diversi mentalità complottiste. Una teoria è complottista quando pretende svelare la potenza sterminata dell’Altro.

Non risponderò a questa domanda che mi pare fondamentale.

Mi basterà dire che una delle grandi illusioni è credere che si sia convinto qualcuno con degli argomenti, ovvero con prove e deduzioni logiche. Spesso siamo contenti perché pensiamo di aver convinto qualcuno che nutriva un pregiudizio su un certo tema. Magari perché il qualcuno “convinto” ti attribuisce un’indubbia autorevolezza in quel campo. Poi d’un tratto scopri, dopo mesi o anni, che la persona continua a credere fermamente nel pregiudizio che pensavi di aver dissipato. La persona ti ripete tale e quale la sciocchezza che credevi di aver eliminato con tanta fatica.

Quando l’altro si lega ferreamente a un pregiudizio, tutte le argomentazioni del mondo non lo scalfiranno. Si lasceranno convincere solo per qualche ora o per qualche giorno. L’omeostasi del loro modo di pensare alla fine prevarrà.

Questo accade persino nelle scienze esatte. Max Planck disse la semplice verità: che una nuova teoria scientifica prevale non perché convinca tutti gli scienziati, ma semplicemente perché vanno in pensione o muoiono gli scienziati che credevano nelle vecchie teorie, e i più giovani prendono il loro posto. C’è una demografia della scienza.

7. Aver ragione senza fondamento

Quando si è persuasi di aver superato una certa narrazione intellettuale, un certo paradigma, si ha la sensazione vivida che l’altro, legato al vecchio paradigma, ripeta più o meno le stesse cose. Ci si dice “ma tu non ascolti le ragioni altrui!”, e in effetti le si ascolta con un orecchio solo, dato che già si sa che cosa l’altro dirà. Una volta che si è dentro un certo paradigma, la varietà di sintagmi è alquanto ridotta: argomentazioni e corollari sono sempre gli stessi.

È difficile in effetti incontrare una persona che dica cose che sorprendano, e quando questo accade, è il segnale di un pensiero originale, o comunque di qualcosa che tu non hai ancora pensato. Quando l’altro invece pensa attraverso il filtro ben noto del paradigma o narrazione che tu pensi di aver superato, ti sembra che dica “sempre la solita tiritera”. Alcuni, mentre l’altro dice la tiritera, fanno con braccio o con la mano un gesto spazientito di una ruota che gira gira…. Che gira sempre nello stesso senso.

Per questa ragione sono molto fiero quando, discutendo con qualcuno di una certa cosa, costui mi dice “però, non ci avevo mai pensato!” So che allora ho aperto per l’altro nuovi orizzonti.  Anche se non è affatto certo che l’altro voglia esplorarli.

In una conversazione con amici che più o meno la pensano come me sulle cose finora dette, a un certo punto qualcuno ha detto “Sappiamo che le narrazioni in cui non crediamo non colgono la realtà, la deformano e la camuffano. Ma come facciamo a saper che la nostra interpretazione è migliore?” Ho risposto: “Certamente abbiamo ragione noi. Ma non so perché”.

Tutti i nostri modi di vedere il mondo si basano su paradigmi impliciti o espliciti (“paradigmi” nel senso di Kuhn). Esempi dalla politica. Il paradigma liberista-capitalista si basa tutto sul presupposto che il mercato finisce con l’allocare le risorse nel modo migliore. Il paradigma socialista si basa sul fatto che “le moltitudini” sono dominate e coartate da élites di potere soprattutto economico e che va loro restituito il potere. Il paradigma nazionalista si basa sull’idea che l’entità politica elementare è la nazione e che occorra prima di tutto fare gli interessi della propria nazione. Il paradigma confessionale si basa sull’idea che la politica immanente trovi il suo senso in una dimensione trascendente, quella apportata dalla religione. Il paradigma populista si basa sull’idea che il potere della gente comune è stato confiscato da élites politiche che bisogna detronizzare. È sulla scia di ciascun paradigma che ognuno pensa di vedere la verità, mentre chi segue paradigmi diversi si illude. Ma allora, quali interpretazioni ci illuminano, quali interpretazioni ci illudono?

In realtà non c’è alcun criterio che possa dirci senza fallo quale interpretazione sia giusta e quale sbagliata. Non c’è una meta-narrazione che possa selezionare le narrazioni. Anche perché ogni narrazione contiene già al proprio interno i criteri di quella che deve essere una “buona narrazione”. Una narrazione implica un modello per leggere la realtà, nella convinzione che quel modello è il più verosimile.

Prendiamo un evento politico minore. Nel 2014, poco prima delle elezioni europee, il governo Renzi decise di aumentare le buste paga dei dipendenti di 80 euro al mese in modo uniforme. L’iniziativa venne accolto all’interno della sinistra secondo due narrazioni del tutto diverse.

Una narrazione diceva che l’aumento di 80 euro in busta paga era una mossa demagogica per vincere le elezioni – e difatti alle Europee il PD di Renzi prese oltre il 40% dei voti. Era una mancia data ai lavoratori per comprare il loro consenso. Una mossa demagogica non diversa da quella del governo Berlusconi, che eliminò la tassa IMU sulla prima casa di proprietà.

Chi sostenne invece gli 80 euro faceva notare che, una volta tanto, lo stato praticava uno sgravio fiscale a vantaggio dei lavoratori e non degli imprenditori. In effetti lo stato rinunciava a prelevare 80 euro su ogni salario, riducendo così di fatto il cuneo fiscale. Si faceva notare che in passato le unioni sindacali si erano battute per aumenti in busta paga anche inferiori ad 80 euro. Insomma, si trattava di una mossa squisitamente di sinistra, per cui l’opposizione di parte della sinistra non era comprensibile.

Quale delle due interpretazioni era quella giusta? È certamente verosimile pensare che il governo Renzi credesse di ottenere più consenso con una misura simile, ma questo lo si può dire di ogni misura che vada a vantaggio più o meno immediato di una larga fascia di popolazione. Per esempio, potremmo interpretare come norme demagogiche per drenare consenso la legalizzazione dell’aborto, la riduzione dell’età minima per la pensione, l’eliminazione della leva obbligatoria, ecc. La domanda “ma il politico lo fa per il bene del paese o per comprare il favore degli elettori?” resterà sempre senza risposta perché dipende dal paradigma di lettura che abbiamo adottato.

I paradigmi hanno degli impliciti nascosti di cui spesso chi sostiene quel paradigma non è del tutto consapevole. Per esempio, molti di sinistra pensano che gli incrementi salariali siano buoni solo quando sottraggono profitto ai datori di lavoro. Un incremento salariale dovuto a una rinuncia dello stato a prelevare tasse non è considerato di sinistra, perché per la sinistra lo stato deve essere ricco per poter investire nell’economia e nei servizi. Quando lo stato dà danaro ai salariati al posto degli imprenditori, allora una certa sinistra parla di assistenzialismo, cosa negativa. D’altro canto chi invece ha applaudito gli 80 euro in più parte dal presupposto, non sempre detto, che le scelte di spesa del singolo lavoratore tendano a essere migliori di quelle compiute dallo stato. Lo stato spreca gran parte dei suoi introiti con corruzione e inefficienza, mentre il lavoratore che spende partecipa alla dinamica del mercato – è il principio liberista secondo cui il mercato senza stato produce la migliore allocazione di risorse. Come si vede, la valutazione politica di una misura economica, anche così marginale, rimanda a filosofie implicite della società. È il dramma di ogni discussione su decisioni politiche anche spicciole: se la si volesse portare fino in fondo, giungeremmo sempre alle Filosofie Prime implicite in ogni narrazione. Ma a quel punto l’interlocutore si sentirà stralunato…

8. Infedeltà intellettuali

Quale filosofia è quella giusta?
La domanda mi sembra ingenua.

Negli ultimi due secoli i filosofi hanno cercato di trovare i criteri grazie a cui una teoria scientifica può essere valutata non come vera, ma come appunto scientifica. Una teoria, se è scientifica, deve essere vera o falsa; mentre le interpretazioni “non sono nemmeno false”, alcuni (i neopositivisti) dicono che sono del tutto insignificanti perché non verificabili. Questo dibattito sul giusto metodo scientifico trovò un punto di apparente equilibrio nella teoria falsificazionista di Karl Popper, secondo la quale un enunciato è scientifico solo se è precisamente falsificabile. Peccato però che la teoria di Popper sia stata storicamente falsificata (da T.S. Kuhn, I. Lakatos, P. Feyerabend e altri), per cui si è giunti alla conclusione filosofica che “nella scienza tutto va bene!” Insomma, il programma di enunciare rigorosamente i criteri della scientificità si sono arenati in una sorta di anarchismo metodologico.

Se abbiamo assistito a un fallimento storico dei tentativi di enunciare i criteri della scientificità, figuriamoci se non è fallito qualsiasi tentativo di enunciare un criterio che ci faccia capire quando una interpretazione-narrazione è vera e quando essa è falsa – oppure semplicemente, fino a che punto un’interpretazione-narrazione sia più verosimile di un’altra. Alla fine ci si fida del proprio intuito. Molti di noi a un certo punto hanno avuto il senso di una rivelazione, come di qualcosa che li svegli da un sonno intellettuale. “Finalmente vedo!” È come quando re Lear di Shakespeare finalmente vede la propria follia, l’aver dato credito alle chiacchiere delle figlie malvagie e non all’amore di Cordelia (ed è interessante che questo risveglio passi attraverso l’impazzimento).

Siccome chi scrive ha attraversato vari cambiamenti di paradigma nel corso della propria vita, posso dire che ho vissuto spesso questo senso di rivelazione. Non tutto d’un tratto, ma grazie al mutamento della mia dieta intellettuale. Ci sono tante persone, anche di grande intelligenza, che da anziani credono sostanzialmente nelle stesse cose che dicevano a 20 anni. Invece ho la sensazione che io mi sia mosso, “sia andato avanti”, mentre loro si sono fermati molto presto, non si schiodano mai dai loro amori giovanili… Chi resta fedele a certe idee di gioventù mi fa pensare a coloro che per tutta la vita vivono nel rimpianto del primo amore perché è andato male… Ovviamente loro pensano, al contrario, che sia stato io a “tradire” il paradigma della gioventù, che io sia finito col cadere nelle braccia dell’eresia, che io abbia smesso di vedere. Secondo me loro credono ancora nei bambini portati dalla cicogna; loro pensano che io prima sapevo che ci vuole sperma e ovulo, e ora invece penso che i bimbi siano portati dalla cicogna.

NOTE

           

[1] Sul Corriere della Sera. Ripubblicato come “Bambini e cicogne” in E. Fachinelli, Esercizi di psicoanalisi, Feltrinelli, 2022.

[2] Nei campi in cui ci riconosciamo incompetenti, invece, siamo pronti a dare ascolto a persone autorevoli. O almeno, dovrebbe essere così…

[3] Questo è meno vero quando si dibatte con giovani. Costoro possono persino cambiare idea! Hanno una maggiore plasticità, non si sono ancora sclerotizzati in certe narrazioni, per cui possono permettersi il lusso di cambiare idea. A quando una biologia del dibattito intellettuale? Non c’è un legame tra i nostri pensieri e il nostro sesso, la nostra età, la nostra dieta alimentare, il clima in cui viviamo?…

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