La cura del soggetto

Il calamaro di Lacan

1. Il gioco del calamaro

Il serial Squid Game (Il gioco del calamaro) del sudcoreano Hwang Dong-hyuk è ben noto in Italia. E ne sono rimasti impressionati psicoanalisti e filosofi che fanno riferimento privilegiato alla psicoanalisi, come Slavoj Žižek[1]. Questo soprattutto per una scena del 2° episodio: nella stanzetta da letto di un personaggio misterioso, si vedono sul comodino due libri, uno di Lacan e l’altro su Magritte. Il libro di Lacan è la traduzione in coreano di alcuni suoi saggi e, sembra, del seminario XI (“I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi”) dal titolo “Teoria del desiderio”.

L’apparizione di questi due libri di autori lontani dall’Estremo Oriente è una sorta di epigrafe offerta allo spettatore come chiave dell’intera serie? Per quel che riguarda Magritte, è evidente: lo stile di questa serie è magrittiano. È situata in un mondo-giocattolo, didascalico infantile, in cui la realtà e il gioco si intrecciano tragicamente.

Squid Game. Periodicamente, alcune centinaia di persone vengono attirate in un’isola da una misteriosa organizzazione e costrette a una serie di giochi di tenore per lo più puerile. Queste persone hanno tutte un tratto in comune: sono economicamente rovinate. Perseguitate da debiti ormai impagabili, vivono l’inferno di una vita sociale da braccati. In questi giochi i giocatori vengono via via eliminati, ovvero uccisi, e alla fine del percorso ne restano solo pochissimi, o solo uno. Il vincitore sopravvissuto avrà una somma enorme di danaro in proporzione al numero di concorrenti eliminati. Una somma che gli o le permetterà di rifarsi una vita da ricco. I concorrenti a questo jeu de massacre potrebbero in qualsiasi momento far cessare i giochi spietati con un voto a maggioranza, ma non lo fanno: ciascuno spera di sopravvivere e vincere a scapito degli altri.

2. Il gioco dei prigionieri

Lacan è stato sempre molto interessato alla moderna teoria matematica dei giochi, tra cui il più noto è il Dilemma del prigioniero[2]. Un gioco che sfida il principio della collaborazione su base razionale. Pensava che queste teorie avrebbero dato rigore e spessore alle cosiddette scienze umane. Cosa che di fatto è accaduta, le teorie dei giochi vengono ampiamente applicate in economia, sociologia, politologia, nelle scienze cognitive… Alcuni dei suoi inventori sono diventati popolari, come John Nash, il matematico schizofrenico di A Beautiful mind, libro e film.

Lacan stesso in un seminario del 1944 ha usato una variante del Dilemma del prigioniero – che poi ho ritrovato, in forma semplificata, in La settimana enigmistica. È il saggio “Il tempo logico e l’asserto di certezza anticipata”, pubblicato negli Ecrits. Un saggio che dà alquanto fastidio anche a molti lacaniani che danno un’interpretazione essenzialmente umanista e spiritualista della psicoanalisi.

Il gioco qui analizzzato è quello che il direttore di un carcere impone a tre prigionieri: chi di questi risolverà per primo il gioco verrà liberato. Io, sulla falsariga del clima mortifero di Squid game, dirò che i tre prigionieri devono essere uccisi, ma verrà risparmiato solo colui che indovinerà per primo il colore del berretto che gli viene posto in testa, attraverso un processo logico di cui dovrà dar conto. I tre prigionieri sanno che i cappelli sono cinque, tre bianchi e due neri. Nella realtà a ciascuno di loro viene messo in testa un cappello bianco. Ciascuno, osservando i cappelli degli altri due – che sono in questo caso entrambi bianchi – deve giungere a concludere che anche il proprio cappello è bianco, cosa che potrà avvenire solo osservando il comportamento degli altri due. Lacan mostra che, se tutti e tre i prigionieri fossero veramente logici, dovrebbero capire contemporaneamente – attraverso scansioni temporali dei ragionamenti altrui e del proprio – che ciascuno di loro è bianco, e dovrebbero essere quindi tutti salvati dalla morte.

(Di solito si pensa che l’argomentazione di Lacan sia puramente formale, che nella realtà nessuno riesca veramente a dedurre il colore del proprio cappello. Ho proposto questo gioco in vari gruppi di giovani psicoterapeuti. Alcune volte una dei tre – gli psicoterapisti uomini sono scarsi – ha fatto il ragionamento giusto ed è giunta alla conclusione corretta. Insomma: per chi sa pensare il gioco funziona.)

Perché analizzare questo gioco era all’epoca chiaro: ciascun essere umano può conoscere sé solo attraverso gli altri, interagendo con altri, e questa interazione è scandita da “tempi” che Lacan chiama “logici”, in quanto sono tempi di ragionamenti[3]. Ritroviamo qui in parte la sceneggiatura di Squid Game: dei prigionieri, in questo caso volontari, si impegnano in un gioco nel quale devono contare sulla perspicacia di altri, ma dove ne va della vita e della morte o propria o di questi altri. La crudeltà di certi giochi consiste nel fatto che ciascuno ha bisogno di qualche altro per superarlo ma a costo della vita di questo altro. I giocatori devono collaborare per uccidersi.

3. “La borsa o la vita!”

Sembra che il libro di Lacan esposto in Squid Game traduca il seminario XI, “I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi” del 1963. Qui Lacan sviluppa un concetto importante, l’oscillazione tra Alienazione e Separazione. E per illustrarlo Lacan evoca la scelta: “La borsa o la vita!” La scelta è fasulla perché se si scegliesse la borsa, si perderebbe allo stesso tempo sia la borsa che la vita.

VEL (“O la borsa, o la vita”)

In inglese questa scelta nella quale di fatto non si danno vere alternative è chiamata Hobson’s choice. L’espressione viene da un certo proprietario di una scuderia di cavalli a Cambridge, Thomas Hobson, tra XVI° e XVII° secolo, il quale poneva gli acquirenti di fronte a questa alternativa: “o comprate i cavalli più vicini alla porta della stalla, o non avrete nessun cavallo”. Quest’espressione ha dato il titolo a un noto film di David Lean (Hobson’s Choice, “Hobson il tiranno”, 1954) interpretato da Charles Laughton.

La “la borsa o la vita” è solo uno di una serie di grafi proposti da Lacan, grafi che hanno a che fare con le operazioni di unione e intersezione tra insiemi. Gli altri portati da Lacan sono “la libertà o la morte”, “l’essere o il senso”.

VEL (“o l’essere o il senso”)

Come si vede si tratta di “o…o…” non di tipo puramente logico, dato che la logica si basa sull’alternativa vero/falso. La logica descrive come le combinazioni tra proposizioni producano enunciati veri o falsi a priori, ovvero senza tener conto del loro contenuto. Si prenda la proposizione “piove o [vel] tira vento”, essa è vera se piove e non tira vento, se tira vento e non piove, ma anche se piove e tira vento allo stesso tempo. E’ logicamente vera perché è tautologica. In effetti la logica non riguarda mai parole o concetti isolati, ma solo proposizioni come “io corro”, “piove”, “tu mi ami”, ecc. (anche “piove” è una proposizione, come si vede nell’inglese it rains, nel francese il pleut…). Gli esempi portati da Lacan vanno quindi considerati alternative tra proposizioni, ovvero “dammi la borsa o ti tolgo la vita”, “avremo la libertà o altrimenti avremo la morte”, “io sono oppure l’Altro ha senso”. Come si vede, nei casi di Lacan non si tratta di vero e falso, ma di qualcosa di pragmatico, si dice in filosofia, ovvero di qualcosa che è dell’ordine dell’“è efficace o inefficace” o dell’“è buono o cattivo” o del “mi conviene o non mi conviene”. E la teoria logica dei giochi si occupa appunto di queste proposizioni pragmatiche, di atti e delle loro conseguenze. Insomma, Lacan adopera queste operazioni logiche per riferirsi a ciò che chiamerei relazioni di potere – ed esplicitamente qui si richiama alla dialettica del padrone e del servo in Hegel[4].

Ma come leggere tutto questo?
Ed è leggibile come un tutto?
E soprattutto: è tutto questo leggibile?

4. “E’ un vero signore!”

Secondo me è un errore vedere i grafi e le concettualizzazioni di Lacan come punti di arrivo definitivi, da prendere come una serie di conclusioni che risolvano un puzzle, come Lacan-pensiero. I grafi a cui ci riferiamo, e concetti pur così importanti come l’alternativa tra alienazione e separazione, non saranno ripresi a lungo da Lacan[5]. Ovvero, ogni grafo e concettualizzazione di Lacan sono provvisori, presi in uno slittamento continuo perché evidentemente egli era sempre presto insoddisfatto da ciò che proponeva, e quindi occorreva andare sempre avanti, ancora… Possiamo dire che ciò che viene portato dai suoi agiografi come “la dottrina di Lacan” è una serie di schizzi e appunti che di solito lui stesso abbandona scivolando in altri grafi e concetti, anch’essi insoddisfacenti… Quindi, ciò che dirò sull’alternativa tra alienazione e separazione non è ciò-che-veramente-ha-detto-Lacan, è solo il modo in cui leggo io questa concettualizzazione, la direzione che vi colgo.

Cosa quindi Lacan vuol dire proponendoci queste varie alternative ludiche, soprattutto la più impegnativa, “o io sono, o l’Altro ha senso”?

Indubbiamente ciascuno di noi è un soggetto che, di solito, non si riduce a essere quel che significa: un figlio, un padre, uno sposo, uno psicoanalista… Insomma, una serie di significanti che sono parte dell’Altro. Posso essere un soldato ucraino o russo. In questo caso il significante può implicare la fine del mio essere soggetto vivente, se vengo mandato in una battaglia che esige la mia morte. Una volta morto, sono solo Altro, ovvero mi riduco al senso che sono come “eroe di guerra”. Mi potranno anche dare una medaglia post mortem, innalzarmi una statua. La combinazione ideale è essere (vivo) ed essere inscritto nell’Altro, “essere integrato” diciamo, vivere una vita piena di senso, vivere con la borsa, vivere nella libertà… Tutto ciò corrisponde all’unione tra insiemi che evoca Lacan. Se muoio, invece, avviene separazione tra l’essere e il senso, nel senso che c’è solo il senso di qualcuno che non c’è. E ci sono situazioni nella vita – e questo accade in ogni vita – in cui invece devo scegliere tra la borsa e la vita, tra la libertà e la morte, tra l’essere e il senso. Ora, Lacan sembra dirci che queste situazioni non sono eccezionali, ma sono la matrice della nostra vita soggettiva.

Questa unione tra essere e senso inscrive uno spicchio, l’intersezione tra essere e senso, che Lacan descrive come il non-senso che comporta sempre il fatto di essere. Sono i casi in cui l’Altro si impone al nostro essere ma nella forma del non-senso. Questo sarebbe l’inconscio freudiano. Si sospetta dell’inconscio ogni qualvolta scopriamo in noi del non-senso, come sogni, lapsus, sintomi nevrotici o psicotici, nostri comportamenti assurdi, battute più o meno demenziali (l’humour gioca sempre ai limiti del senso, ci fa godere del non-senso). La scommessa della psicoanalisi è stata proprio questa: far sì che il soggetto riconosca che il non-senso è parte di sé, che l’Altro si impone a noi come non-senso. Tutta la strategia della psicoanalisi è qui: riaggiustare l’essere del soggetto a quell’Altro che gli fa ombra come non-senso, e il cui essere è sempre incerto (perciò molti ne negano l’esistenza).

Ma può avvenire il contrario, che io sono ma vivo una vita senza senso. È come vivere senza la borsa, o vivere in una tirannia. La vita di molti è una vita senza senso, dolorosa, pesante, scontenta… “La vita è sacrificio”, si pensa solo a sopravvivere. E ci si sopravvive. È chi della vita vede solo il grigiore del quotidiano. Al limite, è lo stupor malinconico, la catatonia in cui il soggetto si riduce quasi a cosa senza desideri, massa amorfa di dolore.

Ma tutti dobbiamo fare i conti con questo spicchio di non-senso. Tutti abbiamo dovuto rinunciare alla nostra “borsa” e così siamo sopravvissuti. Nella dialettica hegeliana del padrone e del servo, possiamo dire che ciascuno di noi, per il solo fatto di sopravvivere, è asservito all’Altro (a meno che non ci siamo giocata la vita nel game). Siamo tutti, chi più chi meno, forzati del senso. Quando dico “sopravvivere” non intendo solo la vita fisica, ma anche la vita mentale, il nostro persistere come soggetti. Ora, alcuni non conservano la loro vita mentale, sono invasi dall’Altro: gli psicotici. Contrariamente a quel che si pensa, lo psicotico vive un eccesso di senso, è sequestrato da un senso che lo soffoca e che gli sottrae essere.

E in effetti possiamo vedere gli esiti psicotici come una sconfitta del soggetto da parte dell’Altro, che lo invade da ogni parte. Nella fuga di idee schizofrenica il soggetto diventa assolutamente preda dell’Altro. Nella soluzione catatonica il soggetto si arrende consegnandosi mani e piedi all’Altro, ridotto lui quindi al silenzio. Nella soluzione ebefrenica il soggetto si arrende all’Altro assumendo una distanza abissale dal senso, istupidito dalla sua carenza. Quanto alle soluzioni paranoiche, il soggetto cerca ancora una disperata resistenza contro l’Altro, vivendosi come sua vittima, come minacciato da Lui. Il paranoico patisce gli atti dell’Altro: che lo perseguita (delirio persecutorio), lo ama da un’abissale distanza (erotomania), lo tradisce con qualcun altro (delirio di gelosia), lo ha danneggiato per sempre (querulomania). Quanto alla megalomania paranoica, il soggetto “risolve” diventando l’Altro tout court: Dio, Cristo… Napoleone. Ovvero, diventa personaggi grandiosi ma morti o che stanno nell’Aldilà, insomma, puri significanti. La grandiosità non è dire “io XY mi sento come un dio” ma dire “io XY sono Dio”. L’essere è totalmente alienato nell’Altro.

Se lo psicotico è qualcuno che ha perso il duello con l’Altro, e se il nevrotico è qualcuno che ha evitato il duello asservendosi dall’Altro, c’è anche chi è sopravvissuto alla lotta. È come il personaggio di Seong Gi-hun in Squid Game, il poveraccio che alla fine vince, ovvero sopravvive al massacro di tutti i giocatori. Lui ha la borsa e la vita, ma ha toccato la morte. L’ha attraversata. Appunto, passiamo tutti per questo gioco micidiale del calamaro? Siamo quel che siamo per come ci siamo sistemati nei confronti del gioco: evitandolo, o accettandolo e sopravvivendoci.

Quando si è prodotto questo gioco letale, nella nostra infanzia? Nella nostra adolescenza? Forse il dramma dell’adolescenza ripete un dramma infantile precoce, a cui forse pensava Freud dandogli il nome mitico di Edipo, anch’esso un gioco di vita e di morte. Se non si risponde all’enigma della Sfinge, si è morti – anche quello di Edipo è squid game.

Ma qui comincia tutt’altro discorso. Posso solo dire che quelli che accettano veramente la lotta (“la libertà o la morte”), “i signori” secondo Hegel, di solito muoiono davvero. Si suicidano perché sanno che hanno fallito. O si danno ad atti che li portano probabilmente alla morte, per esempio vanno volontari in guerra. Sono gli esseri umani veramente guerrieri, i quali – per riprendere l’alternativa di Lacan – per non perdere la borsa si giocano la vita. Alcuni di questi, però, sopravvivono. E sono quelli che lasciano una qualche impronta nella storia, nel loro mondo. Costoro sono i soli che non hanno bisogno di alcuna analisi, perché hanno veramente rischiato di scomparire. Di loro si dice oggi che “sono dei signori”, volendo dire non che dominano gli altri, ma che sono riusciti veramente a dominare sé stessi, e seguono senza cedimenti i loro criteri etici[6]. “È un vero signore!”

5. Il fattore letale

Conosco “una vera signora”, una donna che non ha alcun bisogno di analisi, perché vive una vita piena e soddisfacente. Eppure ha confidato che ogni tanto sente questa voce interna: “Loro dicono che lei si è suicidata”.

Chi sono loro? Non gli altri in generale direi, ma l’Altro che sa. Quest’Altro dice che lei è morta uccidendosi – lei sente parlare di sé alla terza persona. In realtà è ben viva, lei non ricorda desideri di suicidio nel passato, anche se fino a 27 anni ha vissuto una vita orribile per colpa dei suoi genitori. Poi, finalmente, è riuscita a farli divorziare, separare. Da allora sta benissimo. Diciamo che ha una particolare fortezza, nel senso di una delle virtù cardinali per la chiesa cattolica, fortitudo, andreia in greco antico[7]. Quella fortezza che consiste nell’aver affrontato il gioco della sfida della morte, ed esservi sopravvissuta. E questo grazie a una separazione.

Gli esseri umani hanno la scelta ‘l’alienazione o la separazione’. Quindi, possiamo essere alienati senza essere separati, essere separati senza essere alienati, ma anche essere alienati e separati. Ora, “la borsa o la vita” si basa su un vel ironico, alla Hobson: se scelgo la borsa, perdo la borsa e la vita.

L’alternativa “la libertà o la morte” può essere sostituita da una alla squid game: “avere molti soldi o avere la morte”. Solo il vincitore finale del gioco avrà molti soldi ma non la morte, i più avranno la morte ma non i soldi, comunque è sbarrata la possibilità di avere i soldi e la morte insieme. Interviene qui quel che Lacan chiama fattore letale.

Il fattore letale è quella “scelta” fondamentale dell’essere umano, in cui ne va del proprio essere e del proprio senso. Si prenda “la libertà o la morte”: se si muore non si è liberi, ma la possibilità della morte è la sola condizione per essere liberi. Certo, si spera di essere liberi e vivi, ma per lo più questa è una possibilità che chiamerei improbabile. Diciamo che la libertà è il senso, ciò che dà senso alla vita, mentre la vita è un puro essere che può trovare il suo senso solo se questa vita è libera, ovvero se rischia la morte. Insomma, vita e senso non coincidono, e da qui nascono tutti i guai, secondo Lacan, che portano gli umani in analisi.

Molti optano per una vita insensata, nel timore che, se avessero cercato di darle senso, l’avrebbero persa. Questo significa che il malessere che porta qualcuno in analisi è dovuto, in ultima istanza, a una sorta di vigliaccheria, che al limite è la paura di perdere la vita. Questo “perdere la vita” può assumere forme meno drastiche come “non posso perdere il posto che mi fa guadagnare”, “non posso perdere la mia donna anche se non l’amo più, il divorzio sarebbe troppo costoso”, “non posso cambiare paese perché potrei fallire”, ecc. Sullo sfondo, c’è la paura di morire. Ma la vita è soddisfacente solo se si è rischiato in qualche modo il proprio essere.

Cogliamo allora forse perché Hwang Dong-hyuk abbia citato Lacan nel suo serial. Questa citazione ci fa leggere tutta la serie come un’allegoria. Ovvero, squid game, in un certo senso, è la prova per cui ogni essere umano deve passare. Dove ne va della vita biologica e anche di quella psichica.

Questo va detto a quei tanti critici che vedono nella serie soprattutto un apologo contro la crudezza del capitalismo. La verità è che essere rovinati per debiti non è un’invenzione del capitalismo, è qualcosa di molto più antico. Basti leggere Timone d’Atene di Shakespeare. Dire che Squid Game è soprattutto una parabola anti-capitalista – oppure dire che non lo è abbastanza – equivale a dire cose come “Cappuccetto rosso è una favola anti-ecologica perché vi si vede un lupo che mangia gli umani, e Cenerentola è una fiaba contro il matrimonio dei vedovi dato che l’eroina è bistrattata dalla matrigna”.

La condizione-limite di chi è distrutto dai debiti rinvia a una sorta di indebitamento fondamentale di ciascuno di noi, nella misura in cui tutti noi, chi prima chi poi, ha dovuto rendersi conto dell’evidenza che c’è qualcosa di infernale nella vita. Nella vita sociale, certo, da qui il das Unbehagen nella società di cui parlava Freud. E nella vita di relazione in genere. In un’epoca in cui tutti cantano all’unisono le lodi dell’empatia universale, è invece la profonda anti-patia tra gli umani che va evidenziata, matrice di tutto l’iroso lamentarsi di ciascuno. È quell’inferno sociale del Furcht und Elend, terrore e miseriache Brecht attribuiva alla vita in Germania all’epoca del Terzo Reich[8] ma che faremmo bene a leggere come terrore e miseria della vita sociale in generale. E a ciascuno di noi viene richiesto questo atto estremo di coraggio, di giocarsi qualcosa dell’ordine del tutto-per-tutto, per tirarsi fuori da ciò che sarebbe la pura insensatezza del vivere-con-gli-altri. Ciascuno di noi deve compiere una sorta di harakiri spirituale grazie a cui, paradossalmente, la vita può finalmente essere goduta.

È come se dovessimo scegliere tra una vita infernale protetta dalla morte, e un gioco in cui è messa a rischio la nostra vita stessa. Quel che Hegel aveva descritto come dialettica del padrone e del servo. Il servo è chi, per preservarsi in vita, accetta la propria servitù. Il padrone è chi ha affrontato la lotta a morte di puro prestigio ed è sopravvissuto. Sia i padroni che i servi sono sopravvissuti a una spietata eliminazione. Ma il godimento della vita è concesso solo al signore. Oggi certo comandano i servi, ma a loro sembra precluso un vero godimento.

Squid Game

NOTE

[1] “Squid Game and Psychoanalysis: The Theory of Desire of Jacques Lacan”, Flavor Chris, https://flavor-chris.com/2021/11/03/squid-game-and-psychoanalysis-the-theory-of-desire-of-jacques-lacan/.  “Theory of Desire: Jacques Lacan and Squid Game”, The Dangerous Maybe, https://thedangerousmaybe.medium.com/theory-of-desire-jacques-lacan-and-squid-game-7e3d7563afbf.  Full Glass: Squid Game + Lacan, Youtube, https://www.youtube.com/watch?v=zE1Gq3LbDI4. “The Desire of Squid Game”, The Philosophical Salon, https://thephilosophicalsalon.com/the-desire-of-squid-game/. Guy Walker, “Squid Game: All You Need is Death”, Full Stop, https://www.full-stop.net/2021/12/15/blog/guywalker/squid-game-all-you-need-is-death/.

[2] Vedi “Prisoner’s Dilemma”, Stanford Encyclopedia of Philosophy, https://plato.stanford.edu/entries/prisoner-dilemma/.

[3] Quel saggio di Lacan uscì in contemporanea con Huis clos (A porte chiuse) di Sartre. Anche in questo dramma teatrale si tratta di tre personaggi che devono “giocare”, benché qui la loro interazione non porterà alla liberazione di nessuno di loro, ma all’eternità di un imprigionamento infernale.

[4] Lacan, Le Séminaire, livre XI; Paris, Seuil, 1973, pp. 192-3.

[5] Il tema dell’alienazione e separazione verrà ripreso solo nel seminario successivo, “Problemi cruciali della psicoanalisi”, del 1964.

[6] In fondo, gli eroi dei film d’azione popolari, in grado di rischiare “missioni impossibili” e che alla fine ovviamente vincono, sono le figure più ammirate anche se fittizie.

[7] Le quattro virtù cardinali sono: prudentia, iustitia, fortitudo e temperantia. Ovvero: capacità di discernimento, senso della giustizia, coraggio, temperanza.

[8] B. Brecht, Terrore e miseria del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1997.

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