Pensare politicamente

Foucault e il neoliberalismo

“Foucault e la biopolitica liberale. Materiali per una critica del liberalismo”

Parole-chiavi: Foucault e la biopolitica, liberalismo tedesco e liberalismo americano, il capitale umano, anarchismo liberale, stato e/o mercato

“A mio parere, l’ideale competitivo funziona tra gente che crede nel «lavoro, patria, famiglia» proprio perché il liberalismo non è solo una teoria meta-sociale, non è vedere la Terra a partire da Marte, ma è esso stesso parte della società e delle sue dinamiche, parte tra parti. È questo il paradosso della vita sociale: che le teorie sulla società intera sono parte di questa società. Ora, le società nelle quali prospera il liberalismo tendono anche spontaneamente a imbrigliare e modificare i puri processi di mercato, quando essi danneggiano alcuni o tutti.”

“È davvero un caso che il boom industriale tedesco sia stato coevo della fortuna di filosofie sostanzialmente anti-tecnologiche e anti-capitaliste come quelle di Husserl, Heidegger, Benjamin, Adorno, Habermas? O che il grande scrittore del miracolo economico nipponico sia stato Yukio Mishima, cantore del ritorno all’etica eroica del samurai? O che l’intellettuale forse più rappresentativo dell’Italia del boom economico del dopo-guerra sia Pier Paolo Pasolini, cantore nostalgico di un mondo rurale e di un’Italia arcaica?”

1 – La fede nella catallassi

Come descrivere ciò che è essenziale del liberalismo o liberismo, oggi detto neoliberalismo? E comunque, c’è un’essenza del liberalismo – come della sinistra, della destra, del radicalismo, ecc.?

Penso che i tanti scritti contro il neo-liberalismo pubblicati oggi siano in gran parte fuori tempo: se per neo-liberalismo si intende il Washington Consensus degli anni 1990, il predominio di una visione liberale in senso stretto da applicare ovunque nel mondo, allora si tratta di un fantasma. Non esiste più alcun Washington Consensus. La nuova potenza che contende l’egemonia all’Occidente, la Cina, procede su linee ben poco neo-liberali. La crisi successiva al 2008 e soprattutto la crisi della pandemia Covid-19 nel 2020 e oltre, hanno di fatto vanificato l’impianto neo-liberale. Dal 2008 in poi abbiamo visto un intervento sempre più massiccio e decisivo degli stati o di entità sovra-nazionali (come l’Unione Europea), che trasgrediscono tutti i principi del liberalismo, vetero- e neo-. Ma se il neo-liberalismo contro cui si continua a infierire è un cadavere, non lo è la grande narrazione liberale, che ha oltre due secoli di vita e che certamente non verrà eliminata dalle crisi degli ultimi anni. Ragion per cui ha ancora senso, secondo me, confrontarsi con il nocciolo della narrazione liberale in generale.

Il progetto liberale sembra chiarissimo: meno stato, più mercato. Il motto liberale più celebre è che, in qualsiasi paese, «lo stato non è la soluzione, è il problema».

Il liberalismo è convinto che la Mano invisibile combini e intrecci spontaneamente gli egoismi di ciascuno, senza alcun bisogno di programmazione, per produrre equilibrio economico e ricchezza. F.A. von Hayek parlava di catallassi, ovvero la situazione ordinata di mercato nata dall’interazione spontanea di agenti economici che seguono ciascuno proprie finalità. Il liberalismo quindi legittima ed esalta l’egoismo di ciascun individuo, dato che questo vizio privato porta alla pubblica virtù della società liberale, che è la società più ricca possibile. Il liberalismo esalta quella che Kant chiamò “insocievole socievolezza”.

Commenteremo qui il modo in cui descrive il liberalismo un pensatore che certamente liberale non era – ma libertario sì – Michel Foucault. Ovvero il volume che raccoglie i suoi seminari tenuti al Collège de France nel 1978-1979, Nascita della biopolitica[1] . Si tratta di una lettura del liberalismo[2] inteso come strategia biopolitica. È un seminario sul liberalismo in generale, ma soprattutto sul neoliberalismo moderno, in particolare sui neoliberalismi tedesco e americano. Verte sui liberalismi teorici legati alle due economie nazionali che – assieme al Giappone – negli anni 1970 facevano “da locomotiva” dell’economia mondiale.

Da allora, il filone di studi biopolitici, ispirati a Foucault, ha avuto una grande espansione. Una parte della sinistra è divenuta biopolitica. Ma qui non ci occuperemo di queste derive.

Il corso di Foucault sul liberalismo è di fatto una serie di note di lettura. L’idea di fondo, che svilupperà in seguito, è che il liberalismo – come qualsiasi altro sistema teorico socio-politico – è un modo di organizzare la vita biologica. La politica non è una sovrastruttura in senso marxiano, ma consiste nei vari modi in cui certi paesi e certe epoche scelgono una data strategia del come vivere e, anche – aggiungerei – su chi deve vivere e su come si deve morire. Perché, anche se in modo inconsapevole, le scelte politiche implicano sempre una scelta su chi debba vivere e chi debba morire. Basti pensare alle legislazioni sull’aborto o sul cosiddetto accanimento terapeutico. O alla scelta su chi respingere sui barconi nel Mediterraneo e chi no, condannando molti alla morte in Libia o in mare. E ovviamente, se scatenare una guerra che farà molte vittime o no.

L’epidemia di coronavirus dal 2020 ha dimostrato in modo plastico che le decisioni politiche spesso sono scelte di vita o di morte: si trattava di decidere se parte della popolazione più anziana poteva esser lasciata morire oppure se occorreva fare di tutto per proteggerla, a costo però di una formidabile crisi economica che avrebbe creato altre “morti” (e non solo finanziarie) nella popolazione.

Si considera Foucault uno dei campioni del pensiero libertario moderno. In effetti, la preoccupazione per la libertà – la cui matrice in Foucault è nietzscheana – domina la sua intera opera. Ora, il pensiero libertario è una radicalizzazione del liberalismo: il primo estende a tutti gli aspetti della vita sociale un principio di iniziativa individuale che il liberalismo conservatore limita sostanzialmente (e come vedremo, artificialmente) alla vita economica. Per questa ragione l’anarchismo o minarchia in America è considerato un’idea di estrema destra, non di estrema sinistra.

Si sa che negli anni ‘80 – con il thatcherismo e la reaganomics – le concezioni liberali hanno prevalso in Occidente, mentre fino agli anni 1970 ancora dominavano i presupposti keynesiani. In effetti, dopo la Seconda guerra mondiale fino agli anni 1970, le politiche economiche dei paesi occidentali erano formulate, per usare le parole di Foucault, in termini di obiettivi finali (pieno impiego, crescita dei livelli di vita). Insomma, le politiche occidentali erano “socialiste” in senso lato, la politica tendeva ad avere il posto di comando dello sviluppo. E in effetti, le politiche delle banche centrali e dei governi occidentali fino agli anni 1970 erano tese sostanzialmente ad assicurare la piena occupazione. Poi, fino al 2008, l’obiettivo fondamentale è diventato battere l’inflazione; lo stesso euro è stato concepito come moneta anti-inflattiva. Per battere l’inflazione, molti paesi hanno visto formarsi masse ingenti di disoccupati.

Dagli anni 1980 in poi invece le politiche economiche sono state formulate essenzialmente in termini di obiettivi intermedi: parità monetaria, equilibrio di bilancio, privatizzazioni, flessibilità dei mercati. Dopo la crisi del 2008 e del 2011, ai paesi allora chiamati PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, i paesi deboli dell’euro) si richiedeva ancora tutto questo per uscire dal marasma. L’Occidente, dopo la morte di Foucault, sembra essersi insomma ri-convertito al liberalismo, affidandosi alla catallassi affinché le cose andassero per il meglio.

Eppure Foucault già all’epoca aveva intuito che il liberalismo aveva ormai assunto la direzione delle grandi economie occidentali. Come vedremo, anche il welfare state era per lui un corollario del liberalismo, e non – come tutti pensavano all’epoca – un correttivo innestato su di esso. Di fatto, in questo seminario esamina i presupposti fondamentali della «ragione governativa» o «ragione del minor stato» – che distingue dalla vecchia «ragion di stato» [p. 47][3] – dell’epoca in cui viveva; e in cui in parte, ancora, viviamo.

[Nel corso di questa esegesi del testo foucaultiano, inserirò tra parentesi quadre le mie personali osservazioni, estranee quindi al testo di Foucault.]

2 – Il governo frugale

            Foucault dichiara subito di voler esaminare il liberalismo non come una teoria e nemmeno come una ideologia, ma come una pratica di governo: un modo di fare orientato verso degli obiettivi e che si regola con una riflessione continua – il che contrasta evidentemente con tutta la letteratura di critica dell’«ideologia neoliberale» che fiorirà dopo di lui, e che spesso si richiamerà, abusivamente, proprio a Foucault. Di fatto, il suo seminario verte soprattutto su certe teorie liberali, ma viste come princìpi di arte di governare. Ora, la particolarità, che può apparire paradossale, di questa arte di governare – oggi detta governance – è che essa per principio giudica che «si governa sempre troppo». Il punto di vista squisitamente liberale, dal Settecento in poi, è che il miglior modo di governare le popolazioni è governare direttamente sempre meno, allo scopo di ottimizzare l’economia. In questo senso il liberalismo è un ramo della generale visione anarchica tipica della modernità – ragion per cui tanti teorici che oggi attaccano il liberalismo, di fatto sono anch’essi, essenzialmente, dei liberali.

A differenza delle filosofie pre-liberali, il liberalismo

è uno strumento critico della realtà: di una governamentalità anteriore, da cui cerca di smarcarsi; da una governamentalità attuale che tenta di riformare e di razionalizzare rivedendola al ribasso; di una governamentalità a cui esso si oppone limitandone gli abusi [p. 325].

Da qui la doppia faccia del liberalismo: da una parte schema regolatore della pratica di governo, dall’altra principio di opposizione talvolta radicale al governare. [Diremmo noi italiani: il liberalismo è da una parte Luigi Einaudi, dall’altra Marco Pannella.]

Se il liberalismo conta per lui in quanto forma di governamentalità, questo non significa che il socialismo, ad esempio, ne sia un’altra. Secondo Foucault, che si tratti delle socialdemocrazie scandinave o del comunismo sovietico, non esiste di fatto un’arte socialista di governare [p. 95]. Socialisti e comunisti hanno una teoria dello stato, non una teoria del governo. Così il socialismo si può combinare sia con il governo liberale (come è accaduto in molti paesi occidentali, ad esempio in quelli scandinavi) sia con lo stato di polizia anti-liberale (socialismo sovietico). Alla pratica socialista manca quel che a Foucault appare essere la cosa più importante, la razionalità governativa. [A mio avviso ciò deriva da un vizio costitutivo del socialismo marxista: la sottovalutazione della politica come sovrastruttura. E la sua concentrazione sull’economia come struttura.]

Andando oltre la lettera del testo, ma senza tradirne il senso, potremmo dire che per Foucault il socialismo in fondo non è mai esistito né esiste: è più un insieme di testi e di dottrine che una forma concreta, specifica di governo. Secondo lui, quel che è stato preso per governo socialista nei paesi dell’Est – il «socialismo reale» – era di fatto una combinazione di economia socialista e di stato di polizia. È quanto ha intuito chi ha accusato la sinistra – e, in Italia, specialmente il partito comunista, quando esisteva – di non avere una “cultura di governo”, di trovarsi a suo agio in un’eterna opposizione.

Foucault oppone due grandi vie della critica sociale a partire dal XVIII secolo. Una via è quella rivoluzionaria, rousseauiana e poi marxista: è la via assiomatica, giuridico-deduttiva, che parte dal Diritto e quindi dai «diritti umani». Un’altra via è radicale – così la chiama Foucault – ovvero liberale: qui la libertà viene pensata come indipendenza dei governati rispetto ai governanti [p. 43]. Il fatto che Foucault chiami «radicale» la via liberale non è irrilevante: per lui il vero radicalismo è il liberalismo. Due concezioni fondamentalmente diverse della libertà hanno quindi percorso l’Occidente negli ultimi due secoli. [E lo abbiamo visto anche in Italia fino a non molto tempo fa: da una parte il Popolo delle Libertà, dall’altra i liberals – Partito Democratico, i radicali di Pannella e Bonino]. Sembrerebbe insomma che, per Foucault, la modernità dei paesi industriali sia tutta liberale: a un liberalismo rivoluzionario si oppone un liberalismo radicale. Ed entrambi, in fondo, sono forze di opposizione al predominio dello stato.

Il liberalismo nasce con il Tableau dei fisiocrati e con la Mano Invisibile di Adam Smith, nasce cioè con l’economia politica come disciplina. I destini del liberalismo e della scienza economica politica, da allora, risultano indissolubilmente intrecciati. [Anche i premi Nobel eterodossi in economia sono andati a pensatori – come Joseph Stiglitz e Paul Krugman – che restano nella tradizione liberale.] Ma sin dall’inizio i liberali hanno invocato l’economia di mercato come test decisivo: la massimizzazione delle ricchezze della nazione e la massimizzazione delle procedure governative sono tra loro incompatibili. Il liberalismo nasce come una denuncia dell’eccesso di governo come irrazionale, per tornare a «una tecnologia del governo frugale» [p. 327].

[Sin da Smith, il liberalismo è quindi teoria della decadenza della politica[4]. In effetti, come Kenneth Arrow ricordò a Jean-Paul Fitoussi[5], il mercato appare non compatibile con alcun regime politico né con alcuna forma di governo, inclusa quella democratica. La teoria dei mercati perfetti considera infatti ogni intervento dello stato nell’economia – di qualunque tipo esso sia – come riduttivo dell’efficacia dell’economia stessa. Ma siccome ogni paese ha bisogno di un governo – la pura anarchia è utopica – avremo sempre mercati imperfetti. Il liberale è chi, considerando il governo un male necessario, intende comunque limitarne massimamente il dominio. Il liberalismo, non meno del marxismo, è una teoria in fondo utopistica, insomma irrealizzabile. Invece Foucault nega che il liberalismo sia un’utopia. Ma credo che, se si accoglie la sua ricostruzione, la conclusione sia inevitabile: il liberalismo è una delle grandi utopie occidentali. È impossibile avere una società puramente liberale.]

L’appello al mercato è per il liberale – nota Foucault – un appello alla verità: in tutto il pensiero liberale, il governo viene chiamato non a rendere conto della propria legittimità giuridica, ma della propria adeguazione alla verità. E questa verità è l’economia, ovvero il mercato. «L’economia produce legittimità per lo Stato che ne è il garante… l’economia crea diritto pubblico» [p. 86]. Usando una terminologia marxista, diremo che per i liberali la struttura (la verità) è il mercato, la sovrastruttura (la finzione) è lo Stato.

Foucault di preferenza dice e scrive il contrario di quel che pensano tanti foucaultiani. È come se con questo seminario egli dicesse a tanti suoi aficionados che si volevano radicali: «denunciate così accoratamente gli apparati invadenti dello stato, ma non vi rendete conto che, così facendo, siete solo dei liberali!» Foucault infatti legge il predominio del liberalismo anche e soprattutto in una fobia dello stato molto diffusa all’epoca in Francia, e che poi sarebbe cresciuta più che mai a partire dagli anni 1980. Sia nelle versioni radicali di sinistra che in quelle tecnocratiche di destra (incarnate dall’allora presidente francese Giscard d’Estaing) egli vedeva uno stesso motivo: l’orrore per il potere dello stato. All’epoca, a parte le frange comuniste, l’Occidente appariva a Foucault fondamentalmente unito nella missione di limitare lo stato e i suoi poteri. Per lui, anzi, questa tendenza novecentesca a far deperire lo stato accomuna paradossalmente regimi totalitari (fascisti e comunisti) e regimi liberali. Un’altra sfida ai luoghi comuni. Nel totalitarismo, infatti, prevale non lo Stato – come si crede comunemente – ma una governance del Partito. Un partito domina, controlla, e quindi limita, lo stato. Questo è vero per il Terzo Reich come per l’URSS.

[Noto però che a questa vocazione anti-statalista del pensiero moderno si è sovrapposta nei fatti una tendenza opposta: l’espansione dello stato come redistributore, insomma come principale potenza economica di un paese. Nelle democrazie reali di oggi, i prelievi obbligatori sono molto elevati: possono andare dal 35 al 50%. I governi ridistribuiscono una parte importantissima dei redditi primari. Critica liberale e pratica della democrazia sono andate quindi in direzioni opposte: le nostre società industriali sono di fatto la risultante dell’interazione di queste due tendenze divergenti, democrazia versus liberalismo. Qui Foucault non tiene conto di questa dinamica interattiva.]

3 – Liberalismo tedesco e stato forte

Foucault dedica molto spazio al neo-liberalismo tedesco che, nato verso il 1928 sulla scia della scuola di Friburgo, dopo la seconda guerra mondiale si è espresso soprattutto attraverso la rivista Ordo[6]. Questa scuola di fatto ha ispirato le politiche economiche della Repubblica Federale Tedesca all’epoca di Adenauer ed Erhard. Questa scuola ha criticato allo stesso tempo – mettendoli nello stesso fascio – il socialismo sovietico, il nazional-socialismo tedesco e le politiche interventiste di stato ispirate a Keynes. Per loro il piano Beveridge – che nel 1944 lanciò il welfare state in Gran Bretagna – sfocia inesorabilmente nel piano Göring, cioè nella pianificazione economica nazista. I neo-liberali respingono sia il protezionismo dell’Ottocento che l’economia pianificata del Novecento: osano pensare un nuovo capitalismo.

Foucault nota che questa scuola parte da presupposti filosofici diversi da quelli naturalisti ed empiristi che ispiravano il classico liberalismo britannico, matrice di ogni liberalismo successivo. I punti di partenza dei tedeschi sono la filosofia neo-kantiana, la fenomenologia di Husserl e Max Weber. Questi ordoliberali considerano i padri fondatori del liberalismo, di solito sudditi di Sua Maestà britannica, vittime di una fallacia naturalistica: costoro pensavano che l’economia di mercato fosse una sorta di stato naturale, autentico, della socialità, e che bastasse quindi eliminare certe sovrastrutture innaturali (stato, burocrazia, politiche dirigeste, ecc.) per ritrovare la felice spontaneità – la verità – dei processi economici. Per i liberali tedeschi invece l’economia di mercato va organizzata – ma non pianificata né diretta – all’interno di un quadro istituzionale e giuridico rigoroso. L’economia di mercato è effetto di un’attenta ingegneria politica, in modo che la libertà dei processi economici non produca distorsioni sociali. La libertà economica non è il ritorno a uno stato di natura dello scambio tra individui deviato dalla sovrastruttura politica, piuttosto è una macchina che va politicamente costruita come una struttura possibile del reale. Essa è una struttura dotata di proprietà formali, è un eidos – una forma essenziale – nel senso di Husserl.

Ora, questo eidos non è tanto lo scambio quanto la concorrenza – un gioco formale tra ineguaglianze. Questo liberalismo sofisticato implica «un interventismo sociale attivo, multiplo, vigilante e onnipresente» [p. 165] – insomma, un forte mercato esige uno stato forte. Credo che la storia del XX secolo abbia dato loro ragione: a capitalismi fortissimi corrispondono stati fortissimi. L’economia è un gioco, e, come tutti i giochi, esige arbitraggi, controlli, regole che vanno fatte rispettare da un potere fuori del gioco.  Per assicurare questo gioco di concorrenza lo stato non può perseguire il laissez-faire, ma deve assicurare la stabilità dei prezzi combattendo i rischi di deriva monopolista, e puntare all’equilibro della bilancia dei pagamenti. [Sono i principi che la Germania e altri paesi nordici hanno seguito almeno fino al 2020, imponendo l’austerity ai paesi del Sud Europa. Il liberalismo tedesco è restato bismarckiano: non crede affatto che il regno dell’Economia segni il tramonto della Politica. Esso associa il liberalismo a ciò che di solito si percepisce come suo opposto: il culto dello stato forte.]

[Che un mercato florido e uno stato forte – anche nelle sue istituzioni economiche – siano due facce della stessa medaglia dovrebbe essere oggi un’evidenza indiscutibile. Si concorda nel dire che il grande sviluppo capitalistico dell’Inghilterra sia stato il risultato della riuscita della Banca d’Inghilterra, fondata nel 1694: la prima banca di stato di successo. Nel 1786 a Londra c’erano già 52 istituti bancari privati proprio grazie alla vicinanza della Banca d’Inghilterra e alla fiducia che questa ispirava. Oggi, gli Stati Uniti hanno uno stato federale formidabile, che è stato molto rafforzato dopo l’11 settembre.  Basti pensare alle sue forze armate, al suo apparato spionistico, alla Federal Reserve, al controllo capillare e globale delle comunicazioni che Edward Snowden ha svelato, ecc.

Insomma, Foucault vede nel liberalismo tedesco un ribaltamento del liberalismo classico: perché il mercato possa dare il meglio di sé, occorre uno stato forte. Lo stato è la soluzione quando il mercato ha un sacco di problemi. Dopo il 2008 e il 2020, lo abbiamo visto bene. In effetti, l’amministrazione Bush Jr., che diceva di ispirarsi ai precetti liberali, non ha esitato a correre in aiuto delle banche a seguito della grande crisi del 2008. Evitando così un crollo dell’economia ancor più disastroso. E violando le regole del governo liberale. Quando scoppia una vera crisi, il gioco liberale va a farsi benedire.

Per esempio, dal 2004 al 2021 l’Airbus europeo e la Boeing americana si sono affrontate anche in tribunale per concorrenza scorretta; ma entrambe sono state condannate perché usufruivano di aiuti di stato. Insomma, di fatto non c’è mai una politica puramente e integralmente liberale, il che genera la sensazione che il liberalismo sia Utopia.]

4 – Liberalismo americano e “capitale umano”

L’ordoliberalismo tedesco è sorto e insorto soprattutto contro il dirigismo prima bismarckiano e poi nazista. Il neo-liberalismo americano – riconducibile in gran parte alla scuola di Chicago – è sorto e insorto soprattutto contro il New Deal degli anni 1930, contro la pianificazione di guerra e le politiche democratiche (Roosevelt, Truman) dei grandi programmi economici e sociali.

Foucault marca le differenze tra il neoliberalismo tedesco e quello americano, oggi confusi allegramente nella sigla neoliberalismo. Per i tedeschi la regolazione dei prezzi attraverso il mercato – il «plebiscito dei prezzi» – è di per sé fragile; abbiamo visto quindi che questa regolazione va sostenuta attraverso politiche di intervento sociale. Lo stato, proprio per lasciar libero corso al mercato al di fuori del controllo statale, deve intervenire continuamente sul piano giuridico. È in fondo il grande paradosso storico del liberalismo. Per i tedeschi il liberalismo prospera in una società i cui elementi non sono costitutivamente liberali: esso va trapiantato in una ‘natura’ che non è liberale.

Invece l’ambizione dell’anarco-liberalismo americano è di estendere il principio liberale a campi che di per sé sembrano sfuggire del tutto alla logica economica: alla famiglia e alla natalità, alla delinquenza e alla politica penale; in prospettiva, a tutto il bios umano. Da qui la teoria del capitale umano, a cui Foucault attribuisce grande importanza, come genuina teoria biopolitica. Allora il termine «capitale umano» non era ancora entrato nel linguaggio comune come oggi, anche se di solito travisato.

Nel liberalismo classico mancava un’analisi del fattore lavoro, ridotto a forza e tempo (si parlava di forza lavoro e di tempo di lavoro). Invece nel neoliberalismo americano il lavoro e il lavoratore diventano finalmente oggetti di analisi economica: «il lavoro stesso va considerato come una condotta economica praticata, messa in opera, razionalizzata, calcolata da chi lavora» [p. 229]. Anzi, l’intera vita umana può essere reinterpretata come un processo economico di scambi e investimenti. L’economia tratta insomma della razionalità di qualsiasi homo oeconomicus – tutto o quasi il campo delle azioni umane viene riportato alla strategia economica. [In seguito, la stessa biologia si impregnerà di metafore economiche: per il neo-darwinismo, la stessa evoluzione della vita verrà equiparata alla competizione economica.] Quindi, il singolo lavoratore è considerato un’impresa, perché per questo modo di pensare

l’analisi economica deve ritrovare come elemento di base di queste decifrazioni non tanto l’individuo, i processi o i meccanismi, ma delle imprese [p. 231].

Homo oeconomicus per il liberalismo non è l’uomo che scambia e nemmeno l’uomo consumatore: è l’uomo-impresa. Economicamente parlando, ciascun essere umano è un’impresa. [Anni fa, dei liberali italiani hanno proposto di aggiungere nell’articolo 1 della Costituzione che dice «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» le parole «…e sull’impresa». Ma per il liberalismo biopolitico il lavoro stesso è sempre fatto imprenditoriale. L’operaio è un imprenditore del proprio capitale umano, come vedremo.]

Molta teoria liberale si proclama individualista – anti-olista, anti-collettivista, anti-strutturalista – ma in fondo l’individuo che conta per la teoria liberale è un’impresa. Non è più l’impresa a essere pensata come un individuo economico, è l’individuo che viene sempre più pensato come un’impresa biologica. La società capitalista non è la società mercantile che vedeva Marx, ma è l’etica sociale dell’impresa così come Weber, Sombart e Schumpeter l’hanno descritta.

Qualsiasi Homo oeconomicus, abbiamo detto, è un imprenditore di sé stesso. Ma che cosa produce questa impresa? Soddisfazione. [In prospettiva, attraverso la soddisfazione Homo mira alla felicità, di cui la Costituzione americana garantisce a ciascuno la ricerca. Credo che lo scarto tra soddisfazioni e felicità sia questione essenziale per la politica.] Anche il consumatore, in questo senso, è un produttore: comprando beni, produce la propria soddisfazione. Essendo ogni Homo – nella misura in cui è oeconomicus – un’impresa, lei o lui utilizza un capitale: quello che lei o lui sa fare. In questa ottica il salario, ad esempio, non è altro che la remunerazione o reddito prodotto da un certo capitale, detto umano. Chiunque lavora e produce reddito fa fruttare sé stesso e le proprie capacità come capitale. Penso che oggi, sempre più, anche se crediamo di non essere liberali, tendiamo a vedere la nostra storia personale in questi termini. Di fatto, questo è come sempre più spontaneamente pensiamo noi stessi, anche se scriviamo saggi indignati contro il neoliberalismo.

Ma come si forma questo capitale umano?

A parte il capitale innato, geneticamente trasmesso, c’è un capitale acquisito – da qui l’importanza dell’allevamento e dell’educazione. Il famoso slogan di Tony Blair «education, education, education» è in fondo l’applicazione alla politica della teoria del capitale umano. Ma per i neoliberali non esiste solo la formazione scolastica: le cure genitoriali, i rapporti di vicinato, il tipo di svaghi, ecc., tutto contribuisce alla formazione di un capitale umano più o meno elevato. La classica barriera tra economia da una parte e varie altre forme di vita dall’altra (puericultura, educazione, estetica, svago, sessualità, vita familiare, ecc.) crolla: tutto può essere interpretato in termini imprenditoriali. Ad esempio, una madre che si prende cura del proprio bambino è una che investe nel capitale umano del figlio, che si tradurrà un giorno in un reddito che questo figlio percepirà. Ma la madre, allora, è un agente puramente altruistico estraneo alla logica economica? No, perché prendendosi cura del figlio anche la madre guadagna un reddito psichico: la soddisfazione di vedere un giorno il proprio rampollo remunerato adeguatamente per il capitale che lei stessa ha contribuito a formare.

La famiglia basata sulla coppia coniugale viene interpretata come una ditta: il contratto matrimoniale permette in effetti di scambiarsi soddisfazioni di vario tipo, evitando di rinegoziare a ogni passo e senza posa gli innumerevoli contratti, spesso taciti, che costituiscono la vita domestica. Il matrimonio permette un risparmio dei costi di transazione; ad esempio, non si perdono tempo e soldi a corteggiare uomini e donne per avere un rapporto sessuale e affettivo. Il marito fedele, suppone l’economista, è più produttivo del donnaiolo.

Grazie a questa “analisi ambientalista”, secondo Foucault la politica si rivela finalmente come biopolitica: essa non si ferma alle soglie della mitica società civile, ma l’investe completamente – la politica è sforzo di governare tutti gli aspetti della vita umana, anche quella fisiologica. In effetti, Schumpeter aveva visto che il capitalismo non crolla – a differenza di quel che aveva preconizzato Marx – perché esso è in grado di produrre continuamente innovazioni tecnologiche: ora, queste innovazioni sono rese possibili da un elevato capitale umano, costituito da inventori, scienziati, ingegneri, creatori, ecc. I paesi che non decollano economicamente sono paesi poveri soprattutto in capitale umano – e in effetti, i loro livelli di scolarità sono più bassi dei paesi prosperi. L’educazione diffusa non è semplicemente l’effetto del benessere economico di un paese, ne è anche una delle cause fondamentali. In effetti, si rileva sempre una forte correlazione tra livelli culturali di un popolo e livello di performance economica dello stesso[7].

Ma allora non solo, come dicevano le femministe, «il privato è politico»: l’insieme delle strategie private fa la politica economica di un paese. Nulla è estraneo alla razionalità economica. [Perciò in America si dà gran valore al lavoro dei social workers, dei consulenti che aiutano ciascuno a investire al meglio il proprio capitale umano.]

5 – Imposte negative

Sul solco di questa analisi, Foucault scarta l’opinione secondo la quale il welfare state – l’assistenza di stato ai cittadini in quanto esseri umani, non in quanto homini oeconomici – sarebbe stata una protesi trapiantata sulle «democrazie di mercato»[8] attraverso la pressione politica di forze socialiste e solidariste, comunque non-liberali. In realtà, afferma Foucault, lo Stato-Provvidenza – come lo chiamano i francesi – è un corollario della governance liberale. Assicurando la sopravvivenza di chi per una ragione o per l’altra – vecchiaia, malattia, disoccupazione forzata, svogliatezza, turbe caratteriali, follia, ecc. – è escluso o si esclude dall’economia produttiva, lo stato lascia libero gioco al mercato e alle sue selezioni. Proprio per questo lo stato liberale è biopolitico: è pronto a mantenere una parte della popolazione in vita perché la vita economica possa svilupparsi senza eccessivi lacci “morali”.

In effetti, i liberali sanno bene che la miseria ha un alto costo economico e sociale: essa spinge alla criminalità, alle rivolte, crea un’insicurezza generalizzata, guerre tra poveri, ecc. Dopo tutto, l’assistenzialismo è meno costoso di molte strategie di laissez-faire. [Ciò andrebbe ricordato a tutti quelli che – a sinistra come a destra – tuonarono concordi contro la Prima Repubblica italiana in quanto assistenzialista.  Negli anni 1980 quasi tutti fecero propria la denuncia della Lega Nord contro l’assistenzialismo, ovvero contro gli aiuti economici al Mezzogiorno d’Italia (Cassa del Mezzogiorno, ecc.). Se per decenni il Mezzogiorno non fosse stato “assistito”, il potere delle mafie varie sarebbe stato molte volte più forte di quanto non lo fosse a quell’epoca.] L’assistenzialismo è un corollario inevitabile del liberalismo, non ne è l’antitesi. Ma le politiche sociali dello stato – dall’istruzione pubblica semi-gratuita fino al sistema sanitario gratuito per i meno abbienti – possono essere viste, nell’ottica del neoliberalismo, come utili investimenti per elevare il capitale umano: la società, via stato, investe risorse per elevare i livelli di istruzione e creatività dei propri cittadini, per elevare insomma il capitale umano globale del paese.

In Francia negli anni 1970 si parlava di «tassa negativa»: della possibilità di fornire un reddito minimo a chi era assolutamente povero. [È quel che poi ha ripreso Beppe Grillo e il suo movimento con il reddito di cittadinanza.] Come nota Foucault, la povertà considerata dai socialisti è sempre una povertà relativa, ovvero si identifica con le disuguaglianze nell’insieme della società. La povertà dei liberali invece è assoluta: solo la povertà assoluta va assistita con imposte negative. Mentre i socialisti vogliono redistribuire globalmente la ricchezza nella popolazione per attutirne le sperequazioni, i liberali propendono piuttosto per la carità, insomma per l’assistenzialismo: occorre aiutare solo i più poveri, una minoranza della popolazione.

Insomma, un governo liberale deve impedire che alcuni partecipanti al gioco economico perdano tutto e non possano giocare più. Il welfare state è un modo per rimettere nel gioco chi ha perso tutto o non ha nulla, chi insomma dal gioco è stato escluso.

6 – Liberalismo senza libertà

Foucault sin dall’inizio afferma di non voler considerare il liberalismo un’utopia. Ma se non ci fosse dell’utopico nel liberalismo, come esso produrrebbe applicazioni e risvolti auto-contraddittori? Come ogni concezione politica che privilegia principi assoluti, talvolta il liberalismo nella pratica si rovescia nel proprio contrario.

In effetti, l’atteggiamento di Foucault nei confronti del liberalismo appare ambivalente. Da una parte il progetto liberale di «vivere pericolosamente» seduce un emulo di Nietzsche: proprio Nietzsche, profetizzando una Umwertung aller Werte, una trans-valorizzazione di tutti i valori, proponeva il passaggio dal dominio della volontà di sicurezza al nuovo gusto per l’insicurezza e il rischio[9]. Il liberalismo come forma di vita sembra realizzare in qualche modo il progetto nietzscheano di sostituire alla timida volontà di conservazione una volontà che punti sempre a nuovi traguardi, a nuovi esperimenti, sempre oltre, senza limiti… Dall’altra però Foucault nota che, di fatto, il liberalismo si concretizza spesso in misure politiche illiberali – e anti-democratiche, come avvenne nel Cile di Pinochet o nel Perù di Fujimori. La rivoluzione permanente del liberalismo paradossalmente diventa la matrice di reazioni conservatrici. In effetti, anche se oggi i politici occidentali gareggiano nel proclamarsi tutti liberal-democratici[10], di fatto e di diritto liberalismo e democrazia – ovvero, libertà economica e libertà politica – spesso confliggono. Così il liberalismo si rovescia in regimi anti-democratici il cui fine è liberare il capitale umano di ciascuno. La Cina di oggi, ad esempio, sembra essere una combinazione di liberalismo economico e di dispotismo politico, un plutocomunismo. Da qui il paradosso per cui in America si chiamano liberals proprio quelli che contestano, da sinistra, il liberalismo. Ma questa tendenza di un progetto politico ad ammettere il proprio rovescio, a rovesciarsi nel proprio contrario, non è un tratto tipico di ogni progetto assoluto, quindi dogmatico? Di ogni progetto che escluda quell’opportunismo che la storia continuamente richiede?

Se ne avessimo qui lo spazio, analizzeremmo come gran parte di quella che chiamiamo cultura di sinistra in Occidente, una cultura che coniuga cuore anarchico e testa hegelo-marxista, sia in fondo una forma di liberalismo. Il fatto che la sinistra in America si chiami liberal non è casuale. Come diceva Anna Maria Ortese degli intellettuali napoletani del Dopoguerra (Il mare non bagna Napoli), oggi per molti il marxismo è un liberalismo di emergenza. Noi italiani poi dovremmo saperlo bene, perché abbiamo avuto una grande tradizione di liberalismo di sinistra che spesso ha flirtato col marxismo, da Piero Gobetti (La rivoluzione liberale) fino a Pannella. Notiamo che Gramsci aveva una grande stima di Gobetti, il quale pensava che la borghesia italiana avesse fallito il compito di svolgere una rivoluzione liberale e sperava che fosse piuttosto il proletariato a compierla. Possiamo dire che Foucault, il quale certo non era marxista, si inserisce in questa linea gobettiana.

Abbiamo visto che per Foucault l’estensione del welfare state è una misura inscritta nella logica liberale. Ma non è anche, oltre certi limiti (e dove fissare questi limiti?), un rovesciamento del liberalismo nel proprio contrario? Del resto, una logica squisitamente liberale può portare in molti casi al protezionismo. Foucault ricorda che all’inizio dell’Ottocento, proprio per difendere la libertà di commercio al proprio interno, il governo americano stabilì tariffe doganali protettrici per sfuggire all’egemonia inglese. Oggi economisti importanti pensano, in contraddizione con la defunta dottrina del Washington Consensus, che sia necessario per molti paesi deboli proteggersi dal libero scambio proprio per riuscire a sviluppare un mercato al proprio interno. Ad esempio, deviando dalle norme del Consensus alcuni paesi latino-americani, come l’Argentina, hanno ricostruito il proprio mercato, distrutto verso il 2001. Del resto, gli stessi Stati Uniti, pur proclamandosi liberisti, anche prima di Trump proteggevano l’agricoltura americana, alzavano barriere doganali, sovvenzionavano l’industria militare e aeronautica.

Foucault in questo seminario evita una critica della «ragione governativa» liberale, perché non è questo il suo obiettivo – eppure quello che dice ci spinge a formularla. Anche da parte di chi scrive, che si considera un liberal: ma essere liberali non implica accettare una visione del mondo liberale, così come essere socialisti non implica necessariamente essere marxisti. Qui mi limiterò, sulla scia della ricostruzione foucaultiana, ad accennare ad alcuni temi.

7 – Pétain più Berlusconi

Si diceva che il liberalismo può anche non coniugarsi con la democrazia proprio perché di solito – e qui il liberale si separa dal libertario – il liberalismo ha bisogno di uno stato forte. Ad esempio, il liberale Robert Barro[11] pensa che la dittatura illuminata, nella misura in cui reprime le richieste sociali, sia la forma di governo che meglio si adatta all’economia di mercato, in particolare alle economie emergenti: l’importante è che sia libero il mercato, poco importa che lo siano anche gli individui. Oggi sia l’India che la Cina godono di un grande boom economico; eppure è molto più facile fare affari in Cina che in India, proprio perché quest’ultima è una democrazia e la Cina no.

Mi si permetta un ricordo personale. Sin da ragazzo, mio padre – un intellettuale socialista che conosceva bene la storia politica d’Italia – mi aveva insegnato che, a differenza della corrotta Italia democristiana del Dopoguerra, la vecchia classe liberale italiana «aveva un forte senso dello stato». Si riferiva alla leggendaria onestà della Destra storica, e anche a una tradizione liberale di rispetto meticoloso della separazione tra cosa pubblica e cosa privata. Ma non era paradossale indicare come specificità liberale il senso dello stato? Oggi vedo la contraddizione come solo apparente. Perché la dinamica spontanea del mercato produca i suoi effetti (che il liberale considera a priori ottimali) occorre una regolazione ferrea da parte dello stato, in modo che la vita sociale – che tende all’impuro – sia riportata costantemente nell’alveo della pura competizione. Questo, abbiamo visto, è stato concettualizzato dagli ordoliberali, ma di fatto permea il liberalismo sin dalle origini. Così uno degli artefici della concezione liberale, Jeremy Bentham, è anche il progettista del Panopticon, che proprio Foucault ha reso celebre[12]: una società-prigione dove ciascuno è osservato e sorvegliato da un Grande Fratello centrale, a tutti invisibile.

Da Bentham a Bush Jr. È una contraddizione il fatto che il laissez-faire programmatico dell’amministrazione Bush si sia associato a misure inedite di restrizione delle libertà personali, con il pretesto del terrorismo? O con i suoi tentativi di limitare la libertà di ricerca scientifica in nome di principi bioetici e di pregiudizi anti-darwiniani? Ed è un caso che i politici liberisti – che invocano meno tasse, meno controlli sull’economia, insomma meno stato – trovino di solito i loro alleati nella destra tradizionalista, nei fondamentalismi religiosi, nella pruderie repressiva, anziché nei libertari di sinistra?

Per ideologia di destra intendo qui quella che Pétain, all’epoca del regime di Vichy, aveva sintetizzato nel motto «travail, famille, patrie», lavoro, famiglia, patria. È allora un caso che il liberalismo mass-mediatico di Berlusconi – che proclamava la triade di «impresa, internet, inglese» – abbia trovato alleati naturali nei post-fascisti e negli integralisti cattolici, il cui cuore batte per la triade di Pétain? Come accade che, sistematicamente, i produttori liberali di libertà si alleino con i communitarians, con chi afferma i valori tradizionali forti ostili alla disgregazione post-moderna delle identità? Da secoli la sinistra denuncia quest’Alleanza tra liberalismo e conservatismo, ma non riesce mai veramente a spiegarla. La denuncia come dato di fatto, non la comprende nel profondo. A meno di non tirar fuori spiegazioni ad hoc cospiratorie del tipo «il liberalismo si serve di ideologie conservatrici, in particolare religiose, come strumento per tenere buone le masse oppresse». E lo stesso Foucault, dopo aver segnalato come il liberalismo di Bentham si associ al suo Panopticon, non ne sviluppa l’implicazione.

A mio parere, l’ideale competitivo funziona tra gente che crede nel «lavoro, patria, famiglia» proprio perché il liberalismo non è solo una teoria meta-sociale, non è vedere la Terra a partire da Marte, ma è esso stesso parte della società e delle sue dinamiche, parte tra parti. È questo il paradosso della vita sociale: che le teorie sulla società intera sono parte di questa società. Ora, le società nelle quali prospera il liberalismo tendono anche spontaneamente a imbrigliare e modificare i puri processi di mercato, quando essi danneggiano alcuni o tutti. Insomma, il mercato non è mai un sistema chiuso – anche se tanti economisti lo idealizzano spesso come tale – ma è sempre aperto sulle realtà fuori del sistema economico. Per questa ragione dovremmo abbandonare del tutto quella che gli studiosi di IA chiamano ipotesi del mondo chiuso: il mercato può essere separato dall’insieme delle altre forme di vita sociali solo per astrazione, di fatto tutte le forme di vita vi confluiscono. Ci riferiamo qui alla teoria biologica dei sistemi[13]: il sistema mercantile implica un ambiente a esso esterno, ma non è affatto detto che questo ambiente sia a sua volta mercantile. Così come una democrazia funzionante, in fondo, non implica necessariamente che i suoi partecipanti siano tutti spiriti genuinamente democratici. La democrazia è un gioco a cui partecipano anche individui niente affatto democratici, ma ai quali conviene partecipare al gioco democratico. Spesso vincono attraverso libere elezioni partiti niente affatto democratici – come fu il caso della vittoria elettorale del partito nazional-socialista in Germania nel 1933, poi di Putin in Russia, ecc.

Il liberalismo è una teoria del governo sociale che nasce all’interno di un ambiente – di un ecosistema – che non è specificamente liberale, ma che può rendere possibile questo governo sociale e sostenerlo.

Abbiamo già visto che lo sviluppo capitalistico necessita di un livello culturale alquanto elevato della popolazione. Ovvero: occorre un ambiente colto perché vi si sviluppi un sistema mercantile efficiente. E qui l’investimento statale sull’istruzione può essere determinante. Altro esempio: quel che rende difficile lo sviluppo capitalistico di certe aree, africane o asiatiche, è la corruzione dei funzionari dello stato. Il capitalismo ha bisogno, invece, di una certa diffusa onestà – come diceva mio padre, del senso dello stato. Per sviluppare il capitalismo occorrono funzionari kantiani, non utilitaristi come Bentham. Occorrono impiegati ligi al puro dovere anche se potrebbero trarre facili guadagni dalle loro posizioni di potere. Il liberalismo tedesco aveva visto che il mercato non è laissez-faire ma implica un’azione continua da parte dello stato. Ancor più a monte, il mercato implica non solo uno stato forte, ma anche un ambiente spirituale forte, una cultura diffusa della disciplina e dell’onestà, oltre che del rischio. Il declino economico dell’Italia da una trentina d’anni è verosimilmente connesso a un degrado della vita spirituale dell’intero paese, al diffondersi capillare di una mentalità corrotta.

Per produrre libertà, il liberalismo ha bisogno insomma, spesso, di una certa militarizzazione della società, nel senso psicologico e non letterale di “militarizzazione”, che proprio per questo esige i valori di lavoro, famiglia e patria – Pétain più Berlusconi. In effetti, il liberalismo vede la società di mercato come un tutto, mentre essa è solo una parte; ma le parti che non vede sono proprio le parti che rendono possibile il governo liberale, ovvero le condizioni ambientali per lo sviluppo sia del mercato che della sua teoria. Il paradosso è che queste parti che non vede, ma di cui ha bisogno come la terra su cui poggiare i piedi, comprendono anche l’anti-liberalismo politico ed etico.

In effetti, dice Foucault, il liberalismo è un regime di espansione del consumo di libertà. Ma perché questa libertà venga consumata occorre produrla.

…Si instaura, nel cuore stesso di questa pratica liberale, un rapporto problematico, sempre diverso, sempre mobile tra la produzione della libertà e quello che, producendola, rischia di limitarla e distruggerla [p. 65].

In altre parole, il liberalismo pare ereditare anch’esso la famosa contraddizione del progetto di Rousseau – obbligare gli uomini a essere liberi – rovesciandosi spesso e volentieri in un’imposizione della libertà mercantile anche a chi non la vuole. Purché il mercato (“la verità”) sia libero, gli individui possono anche non essere liberi. La Cina di Xi Jinping lo ha ben mostrato.

8 – Vivere pericolosamente

 La critica liberale punta a interpretare l’attore sociale come fondamentalmente Homo oeconomicus. Evidentemente Foucault non crede – anche se qui non lo dice – che Homo sia solo e sempre o principalmente oeconomicus: sono molte le forme di vita umane. Per Foucault la vera essenza dell’umanità a partire dalla quale pensare le varie attività umane è la Volontà di potenza (di Nietzsche), interpretata come bisogno di potere.

Si prenda l’homo disoccupato. Foucault ricorda che la piena occupazione non è un fine fondamentale di una politica liberale; questa, anzi, considera fisiologica una certa disoccupazione. Il disoccupato è un lavoratore in transito che semplicemente passa da un’attività meno redditizia a una più redditizia, se gli va bene. Foucault ricorda la bizzarra frase di Röpke, «l’ineguaglianza è la stessa per tutti» [p. 148]: chiunque può rischiare di perdere. Ma si prenda l’Italia, il paese dell’UE con il maggior tasso di persone che passano per lunghi periodi di disoccupazione, con più disoccupati cronici. Nel nostro Mezzogiorno, molta disoccupazione di fatto non è un transito, è una condizione sociale stabile[14]. Ovvero, milioni di uomini e donne sono di fatto esclusi dall’oeconomia – così alcuni optano per l’economia criminale, che certo non è ideale nemmeno per gli anarco-liberali.

[Di fatto la criminalità organizzata non fa altro che estendere lo scambio mercantile ad ambiti che lo stato cerca di sottrarre al mercato. Questo è evidente nel mercato internazionale delle droghe, delle armi e delle informazioni, ad esempio. Le multinazionali del crimine operano con criteri di promozione, distribuzione, calcolo del rischio, ecc., del tutto analoghi ai criteri delle multinazionali legali. Si dirà: ma la criminalità organizzata ricorre anche alla violenza, assassina i concorrenti, quindi opera con metodi non mercantili. Ma gli stati non ricorrono anch’essi, spesso, alla violenza militare proprio per favorire le loro aziende nel mercato globale? Quanti colpi di stato in America Latina sono stati finanziati e appoggiati da multinazionali americane, o dal presidente americano stesso? Da una parte i poteri criminali liberalizzano ambiti che gli stati vorrebbero escludere dal libero mercato, dall’altra gli stessi stati liberali operano talvolta con metodi e mezzi criminali. Ad esempio, corrompendo con danaro certi leader di paesi politicamente deboli. La criminalità è di fatto un’attività compensativa degli effetti sia del mercato che della politica: redistribuisce risorse e mercantilizza ‘beni’ che lo stato sottrae al mercato. I mercati illegali sono, come l’assistenzialismo, prodotti del mercato.]

Siccome le masse disoccupate votano, queste cercano di riparare alla loro catastrofe premendo – attraverso interposti politici o sindacalisti – per l’assistenzialismo. O semplicemente attraverso pratiche illecite ai danni dello Stato, come false pensioni di invalidità, evasione fiscale, lavori in nero, ecc. Abbiamo visto che una certa dose di assistenzialismo, secondo Foucault, è una conseguenza necessaria della dottrina liberale: modo di mantenere in vita una popolazione perché l’economia viva. Le attività e gli esseri umani che il mercato espelle o esclude – vuoi in periodi di crisi, vuoi perché molti individui falliscono la competizione, vuoi per il crescere della produttività, o per le ragioni più varie – non cessano di esistere biologicamente: quindi questi persistenti che si ostinano a esistere producono azione politica, che tende a controbilanciare e a distorcere gli effetti del mercato.

Foucault dice che il liberalismo è «vivere pericolosamente» – il che è ottima cosa per degli avventurieri nati, ma è pessima cosa per molti altri. Ora, questi molti, che al rischio massimo preferiscono una sicurezza minima, prima o poi premono sul mercato politico. Gli homini non cercano solo di massimizzare il proprio benessere economico, piegandosi così a una competizione permanente: cercano garanzie e sicurezza nelle rendite, nel welfare state, nella coppia, nelle pensioni, nell’acquisto di case, nella famiglia, nella religione, nei titoli di stato senza rischi come i Bund tedeschi, ecc. E anche nella democrazia. Chi pensa che la democrazia sia un freno al liberalismo, tende a vedere la democrazia come una “sicurezza collettiva”, una garanzia assicurativa: so che se le cose mi andranno molto male, avrò comunque sempre il voto e la libera stampa come strumenti per far valere i miei interessi e le mie rivendicazioni. La democrazia mi promette che non sarò mai completamente schiacciato (e non è detto che questa promessa venga mantenuta, come ben sappiamo).

Ad esempio, lo stato liberale dappertutto lascia la libertà a un genitore ricco di lasciare la propria eredità a un figlio, in modo che questi, se vuole, possa vivere bene senza mai lavorare[15] (certi paesi come l’Italia, invece, poco liberalmente impongono ai genitori di non diseredare i propri figli). Ma allora perché considerare anti-liberale il fatto che una collettività decida di mantenere maternamente una parte della popolazione con sussidi? Ad esempio, manteniamo a spese dello stato tanti professori di filosofia, e sappiamo bene che la filosofia non ha applicazioni pratiche utili; questo perché, finora, i popoli che mantengono in vita filosofi hanno pensato che questa liberalità (sic) fosse una cosa giusta. In molti stati si mantengono anche preti, monaci e monache, cioè persone che essenzialmente non producono ricchezza materiale. Perché privare una nazione della libertà di accettare parassiti, filosofi o preti che siano? Perché è “liberale” per un ricco mantenere a proprie spese una amante e non, per un popolo, mantenere i propri poveri? La libertà di mercato significa anche che ognuno è libero di usare i propri soldi come vuole: quindi anche di darli nella carità o “per una causa”. La libertà del mercato implica che si possano impiegare le proprie risorse per fini anti-mercantili. Il mercato non si pronuncia sui fini di uno scambio, ma stranamente certo liberalismo, auto-fraintendendosi, sì: esso pretende di dire al mercato quali scambi sono mercantili e quali no. Quindi, l’attacco liberale a meccanismi di protezione da parte dello stato è a suo modo, per altri versi, un attacco anti-liberale. Lo stato è esso stesso un agente economico che esprime delle preferenze, e il liberalismo parte dal presupposto che non si possono criticare le preferenze di chi spende. Il liberalismo non giudica che si commerci in grano, in libri o in cocaina: l’importante è che si commerci liberamente.

L’ideale del vivere pericolosamente non è egualmente condiviso nella popolazione. Il liberalismo, che proclama l’ottimalità della competizione, è esso stesso una concezione della vita in competizione con le altre: esiste un mercato superiore a quello economico in senso stretto, il mercato delle idee. Il liberale, volendo mercantilizzare la società, non sempre si rende conto del fatto che la sua stessa teoria è un elemento di quel super-mercato o meta-mercato costituito dalle varie concezioni del mondo, della società e della felicità presenti in ogni nazione. Non tutti pensano di essere felici nel liberalismo – come non tutti si sentono felici in una società socialista o in una teocratica o in una dispotico-paternalista, ecc. Chi non si sente felice nella società secolarizzata, pluralista, cosmopolitica e permissiva nella quale viviamo, sogna una società virtuosa, agro-pastorale e sempliciotta come quella vagheggiata da certi fondamentalisti religiosi. Quindi questi modernofobi competono nell’arena politica e ideologica proponendo altri modelli e “arti” di felicità. Il liberalismo non è una teoria meta-mercantile, ma parte relativa del mercato delle idee. La sua teoria della competizione è essa stessa, sempre, in competizione con altre teorie.

Questo porta a contraddizioni che scandiscono le grandi crisi della governamentalità liberale, segnalate acutamente da Foucault. Ad esempio, si può dimostrare che lo svilupparsi di una cultura di opposizione al liberalismo dominante contribuisce a sviluppare di fatto il capitale umano. Non credo sia un caso che le migliori università anglo-americane siano piene di professori e studenti anti-liberali, in particolare nelle facoltà umanistiche. I grandi paesi industriali del Novecento hanno sempre nutrito una vasta opinione – talvolta maggioritaria – decisamente anti-liberale, anti-capitalista e anti-tecnologica. Sulla scia di Hegel, possiamo dire che la modernità è sempre l’effetto dialettico della tensione tra tesi moderne e antitesi anti-moderne: entrambe concorrono, per così dire, al progresso sintetico. È davvero un caso che il boom industriale tedesco sia stato coevo della fortuna di filosofie sostanzialmente anti-tecnologiche e anti-capitaliste come quelle di Husserl, Heidegger, Benjamin, Adorno, Habermas? O che il grande scrittore del miracolo economico nipponico sia stato Yukio Mishima, cantore del ritorno all’etica eroica del samurai? O che l’intellettuale forse più rappresentativo dell’Italia del boom economico del dopo-guerra sia Pier Paolo Pasolini, cantore nostalgico di un mondo rurale e di un’Italia arcaica?

È vero che non possiamo estrarre le opere d’arte e filosofiche dal contesto storico in cui sono prodotte, ma credere che le opere riflettano in modo lineare la propria epoca, che ne siano l’espressione, è una sciocchezza. Ogni epoca è anche risultato del tentativo di districarsi dalla propria epoca.

Anche qui ci troviamo di fronte a un paradosso: lo sviluppo del capitale umano – che avviene attraverso le libere discussioni e produzioni scientifiche, artistiche e filosofiche – non può mettere in questione proprio questo liberalismo che ne celebra lo sviluppo? La libertà delle idee e del loro confronto non può portare a far prevalere concezioni che relativizzino o vogliano limitare questa libertà? Il prevalere di idee anti-liberali non è un effetto possibile della libera competizione culturale? Così come, al contrario, principi liberali possono essere fortemente sostenuti, in molti casi, da sistemi politici dispotici, come abbiamo visto.

L’utopia liberale proclama «se un paese fosse integralmente liberale, tutto andrebbe bene» – ma appunto, nessun paese è integralmente qualcosa, nemmeno integralmente socialista, integralmente dispotico, integralmente teocratico, ecc. La vita sociale non è mai a una sola dimensione. Il gioco ‘puro’ del mercato viene distorto ogni giorno, fino al punto che è problematico dire se certi trucchi siano parte del mercato oppure no. Ad esempio, evadere l’IVA – come si fa comunemente in Italia – è un atto anti-liberale o liberale? Per molte aziende non versare l’IVA come dovrebbero è il solo modo, talvolta, per sopravvivere, quindi per restare nel mercato. Il mercato sopravvive perché attinge continuamente al non-mercato; e ciò che appare anti-mercantile per altri versi si mercantilizza. Le truffe, le pressioni politiche di lobbies e gruppi di interesse sul potere politico, le mazzette, i cartelli a tendenza oligopolista, il costituirsi di monopoli, la tentazione di condizionare i media e l’informazione a proprio vantaggio, l’insider trading, ecc. – tutto questo è liberale o anti-liberale?

Sulla Fifth Avenue a New York, ad esempio, uno stesso prodotto viene venduto talvolta a un prezzo quattro o cinque volte superiore al prezzo dell’identico prodotto in una strada laterale: l’ignaro compratore si lascia abbacinare dal glamour della Fifth Avenue e sborsa qualsiasi cifra. È questo gioco naturale del mercato o truffa? Lo strozzino che presta a un soggetto a cui nessuno farebbe credito del denaro con il 100% di interessi, è solo un delinquente oppure un prestatore di danaro ad alto rischio che cerca così di rimediare all’improbabile restituzione della somma? E se lo strozzino invia qualcuno a riempire di botte un debitore che non paga gli interessi, fa qualcosa di così diverso da quel che farebbe un Comune o lo Stato confiscando il mobilio di uno che non ha pagato le tasse, o staccandogli l’elettricità o il gas? La violenza economica dello Stato è poi tanto meno violenta della violenza fisica dei mazzieri?

Tra il liberalismo ideale e la grande criminalità c’è un’immensa zona grigia che costituisce gran parte della vita degli scambi economici e politici.  Questa zona grigia è effetto del rifluire nello scambio mercantile di altre forme di vita. E le norme per rendere funzionante la macchina liberale non vengono da Marte o da filosofi-re, ma sono prodotti delle dinamiche sociali: ogni società produce naturalmente tiranni e libertà, norme rigide e anarchia, pianificazioni e liberalismo – nessuno dei due poli è la verità dell’altro. Così, il mercato non è più vero dei regimi tirannici o delle guerre di religione: il mercato oppone ai dogmi la sua verità, e i dogmi al mercato oppongono le loro verità.

NOTE

[1] M. Foucault, Naissance de la biopolitique, Gallimard-Seuil, 2004. Tr.it. Nascita della biopolitica, Feltrinelli, 2015.

[2] Il tema della biopolitica fu sviluppato nel corso dell’anno successivo, Du gouvernement des vivants, edito a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, 2012.

[3] Da ora designerò tra parentesi quadre il numero di pagina delle citazioni da Naissance de la biopolitique, cit.

[4] Cfr. Pierre Rosanvallon, Le libéralisme économique, Seuil, 1979, p. 3.

[5] Jean-Paul Fitoussi, La democrazia e il mercato, Feltrinelli, 2004, p. 11.

[6] I suoi esponenti: W. Eucken, W. Röpke, F. Böhm, A. von Rüstow, H. Grossmann-Doerth, gli austriaci L. von Mises e F.A. von Hayek, e il francese L. Rougier.

[7] L’OECD definisce il livello di educazione degli adulti in un paese come la percentuale di persone tra i 25 e i 64 anni che abbiano compiuto qualche forma di educazione terziaria.  Secondo l’OECD, i paesi con i livelli di istruzione più alti al mondo sono, in ordine crescente: Lussemburgo, Norvegia, Finlandia, Australia, USA, UK, Corea del Sud, Israele, Giappone, Canada. Si tratta tutti di paesi con un PIL pro capite alto.

[8] Riprendo questo termine da Fitoussi, op. cit.  Secondo quest’ultimo viviamo non in economie di mercato ma in democrazie di mercato.

[9] Volontà di potenza (III, 27).

[10] Occorre dire però che di recente, soprattutto per bocca di Putin, in molti paesi, specialmente dell’Europa dell’Est, va prendendo piede un’esplicita teoria di democrazia illiberale.

[11] Determinants of Economic Growth: A Cross-Country Empirical Study, «NBER Working Papers», n. 5698, agosto 1996.

[12] In M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, 1976.

[13] Cfr. L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, ISEDI, 1971.

[14] Le statistiche non possono tener conto – o ne tengono conto solo in modo generico – del lavoro nero. Di fatto, gran parte dei “disoccupati” italiani lavora, ma in nero, quindi in modo precario. Andiamo verso una società nella quale il lavoro precario non sarà un’eccezione rispetto alla regola (essere assunti in un lavoro a tempo indeterminato) ma la regola stessa.

[15] Le tasse di successione sono più o meno alte a seconda dei paesi. Ma le tasse di successione limitano solo in parte la libertà di trasmettere ai propri eredi le proprie ricchezze. In questo caso lo stato deve mediare tra due principi divergenti: da una parte la libertà di scegliere i propri eredi, dall’altra redistribuire in parte ciò che un soggetto non ha guadagnato col proprio lavoro.

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