Pensare politicamente

La politica del rancore. In margine a un libro di Carlo Invernizzi-Accetti

     

Se le analisi di Carlo Invernizzi Accetti avranno successo come meritano, avremo una nuova categoria socio-politica fondamentale: lo sfigato.  Altrimenti detti losers o left behind.

Questa figura cosmico-storica – così la qualifica Invernizzi – protagonista dell’ultimo ventennio politico, è protagonista del suo libro Vent’anni di rabbia. Come il risentimento ha preso il posto della politica (Mondadori, 2024).

Invernizzi non vola nel basso della politique politicienne, volteggia nei cieli alti della filosofia, da Platone Aristotele Hegel Kojève fino a Sloterdijk, per atterrare nelle banlieues francesi dove ogni notte si bruciano in media 110 auto, o tra gli scalmanati che il 6 gennaio 2021 dettero l’assalto al Congress americano. Insomma, gli sfigati sono la fonte di quel che ormai da anni vien chiamato populismo, termine che purtroppo ha soppiantato il nostro bel qualunquismo.

Campioni di populismo su cui Invernizzi si sofferma: i movimenti no-global alla giuntura del Millennio, Occupy Wall Street, Grillo e M5S, le insurrezioni delle banlieues, Indignados spagnoli, ultrà ecologisti, #MeToo, gilets jaunes, estreme destre che si gonfiano (Le Pen, Salvini e Meloni, AfD, Trump…) e altri movimenti elettorali o di piazza tra i quali l’autore vede un filo di connessione. E non si cura che siano qualificati di sinistra o di destra – non a caso si parla anche di partiti rosso-bruni, come la Sahra Wagenkencht Alliance in Germania o l’ex-partito nazi-bolscevico di Eduard Limonov in Russia (personaggio su cui ora circola un film).

Invernizzi taglia subito la testa al toro: alimento del populismo non è la miseria o un declassamento economico. Fa notare che l’elettorato del M5S, nel suo momento di massimo fulgore, era trasversale a tutti i gruppi sociali e di reddito.  Che i gilets jaunes che hanno messo a soqquadro la Francia non erano poveracci ma gente del ceto medio che abitava nelle periferie urbane o in provincia. Scrive:

“[I movimenti populisti] alludono raramente a rivendicazioni di tipo materiale, ma fanno invece spesso riferimento a concetti come quelli di ‘valore’, ‘grandezza’ e ‘dignità’, in un’ipotetica gerarchia universale del prestigio.”

Insomma, rovescia il presupposto di tanti scienziati sociali sia di sinistra che di destra, secondo i quali la chiave ultima dei fenomeni politici sono sempre fattori economici. Un intellettuale, oggi, pensa che per capire gli strani umori sediziosi bisogna sempre sapere chi sta perdendo soldi e chi ne sta guadagnando.

Per esempio, non molto tempo fa una persona colta, e che per ciò stesso pensa di capire l’essenza della politica, parlando del conflitto ucraino e della contrapposizione Russia-Occidente prese un’aria profonda e disse: “Ma alla base della guerra in Ucraina ci sono questioni economiche!” Gli feci notare che se era per l’economia allora l’Occidente dovrebbe allearsi piuttosto con la Russia, che estrae molto petrolio e da cui dipendono molte economie di paesi NATO, mentre l’Ucraina non ha petrolio, produce solo tanto grano che va per lo più a paesi in via di sviluppo. Tante persone sono convinte che non si facciano mai guerre per ragioni ideali, per dei principii.

Invernizzi dice invece che la rabbia degli sfigati non è dovuta al loro star precipitando verso la miseria, ma a ragioni squisitamente politiche. O meglio direi, psico-politiche. Essi esprimono la frustrazione di persone che sentono di non avere prestigio. Classicamente, le ineguaglianze sociali sono economiche, di onori e di prestigio (Niklas Luhmann direbbe anche: diseguaglianze in amore). Ma di fatto si analizzano a menadito le diseguaglianze economiche, ben poco quelle di onori e di prestigio. E Invernizzi allora riprende uno dei topoi più influenti nella filosofia politica dell’ultimo secolo, quello della lotta a morte di puro prestigio di cui Hegel ha descritto la dialettica in Fenomenologia dello spirito. Ovvero, gli esseri umani non vivono di solo pane, ma, soprattutto quando non ne hanno abbastanza, anche di gloria. Ognuno vuol essere riconosciuto dall’altro come “uno figo”, e se manca di questo riconoscimento si sentirà disprezzato, uno che non conta niente.

L’elettorato populista e/o di estrema destra è costituito oggi per lo più da persone che vivono fuori dei grandi centri urbani, sono maschi tendenti alla terza età con un livello d’istruzione medio-basso … insomma, da persone che sanno di essere nel fondo disprezzate dalle élite (ma chi sono oggi le élite?). Mancano di prestigio non come “classe sociale” – tutti sono classe media, ovvero senza-classe – ma come individui. Quel che il pensiero non solo di sinistra dimentica è che la gente non si riduce al concetto sociale che abbiamo di loro, ma sono individui ciascuno con i propri desideri di arricchirsi, di essere ammirati, amati, riconosciuti (e qui, credo, Invernizzi è non-hegeliano: gli individui non sono riassumibili in concetti).

Quindi, la rivolta populista non è contro un’élite autoritaria, è contro un’élite autorevole

Un film di Paolo Virzì, Caterina va in città (2003), descrive in modo impeccabile “lo sfigato” di allora. È incarnato in un inacidito professore di ragioneria della provincia. Costui decide di trasferirsi a Roma e di iscrivere la figlia alla scuola media in un istituto rinomato del centro storico. Il ragioniere scrive romanzi osés che nessuno vuole pubblicare, e schiuma sempre più di rabbia in quanto vede che genitori di opposta tendenza politica – un’editrice di sinistra, un deputato di estrema destra – si rispettano a vicenda, mentre lui non viene preso in considerazione. Da qui la teoria populista princeps: “Quelli dell’élite appartengono a una stessa casta, anche se nella facciata si oppongono”. Pure la figlia ha problemi nell’inserirsi nel gruppo degli studenti di sinistra e in quello di destra in quanto da entrambi è considerata “sfigata”. Finché il ragioniere non esplode in una contestazione rabbiosa e auto-screditante contro “Loro!” al Maurizio Costanzo Show.

Invernizzi si rifà al brillante libro di Peter Sloterdijk Ira e tempo, in cui l’autore parla dei partiti politici come “banche dell’ira”. Di solito, quando una “banca dell’ira” governa a lungo, gli elettori rabbiosi ritirano da essa i loro crediti e li mettono nella “banca” d’opposizione. E dopo che questa governa le si tolgono i crediti a loro volta… e il ciclo sempre ricomincia.

Anche se Invernizzi non lo dice, ne consegue che la bandiera tipica della sinistra classica – “più eguaglianza economica” – non può attrarre questi losers. È vero che negli ultimi decenni le diseguaglianze di reddito sono aumentate nel mondo, ma si tratta di un mero dato statistico che non arriva al cuore. Chi conosce il coefficiente Gini? La richiesta dei losers populisti non è di tassare i più ricchi, quanto piuttosto di essere riconosciuti. E nella nostra società “dello spettacolo” essere riconosciuti significa essenzialmente essere visibili. Oggi una persona appare importante solo se vien vista in una TV nazionale. Invernizzi nota finemente che i gilets jaunes hanno scelto come emblema proprio quei gilets che servono a rendere le persone più visibili sull’autostrada. Questo mi era del resto già chiaro nel maggio 1968 francese a cui partecipai: barricate, distruzioni di auto, botte con la polizia… tutto questo serviva per essere sulla ribalta. “I giornali, le tv, i politici, gli scrittori… parlano di noi!”

Si obietta abitualmente a questo approccio psico-politico dicendo che chi non conta nulla può comunque coalizzarsi con altri per rendere efficaci le proprie rivendicazioni. Può organizzarsi in partiti, chiese, sindacati… Ma il punto è che le rivendicazioni dei losers sono occasionali, spesso pretestuose. Le banlieues insorsero anni fa perché due adolescenti di origine maghrebina morirono casualmente per sfuggire a un controllo della polizia. I gilets jaunes fiorirono come protesta contro un aumento “ecologico” della benzina.  “I politici” in generale sono il bersaglio manifesto delle proteste, semplicemente perché i politici sono potere visibile (ed eletto dal popolo).  Così il M5S in una prima fase concentrò la protesta contro gli stipendi, giudicati troppo alti, di deputati e senatori. Ridurre le spese parlamentari è una misura economicamente irrilevante, ma la rabbia deve scaricarsi contro “chi ha potere”.

Gli oggetti delle proteste populiste, insomma, non sono il vero bersaglio. Secondo Invernizzi, ciò che muove la protesta è un bisogno di riconoscimento.

Anni fa parlai con amici norvegesi sul perché avessero bocciato con referendum l’adesione del loro paese all’Unione Europea nel 1994, anche se quasi tutti i partiti politici norvegesi erano per l’adesione all’UE. Le loro risposte erano  del tipo “entrare nella UE era interesse soprattutto dei nostri politici che volevano partecipare a prestigiosi consessi internazionali!” Nessuno sapeva veramente se aderire all’UE fosse un serio vantaggio per il loro paese o no, la ragione primaria del rigetto era di tenore invidioso, impedire una visibilità internazionale ai loro eletti. Questo non ha impedito che la Norvegia entrasse comunque nello Spazio Economico Europeo (SEE), una forma larvata di adesione all’UE. Il referendum è stato aggirato. Il voto popolare tende a essere aggirato, quindi conta sempre meno.

Invernizzi ci ricorda che negli ultimi decenni in Occidente è crollata la partecipazione popolare alle organizzazioni di massa, partiti chiese sindacati e altre associazioni. E la gente vota sempre meno. Ciascuno sembra ripiegarsi nel proprio privato. Ma se si ripiega nel privato, tanto più si ha la sensazione di non contare nulla. La manifestazione politica o religiosa dà a ogni singolo un senso di orgoglio per appartenere a una forza collettiva che avanza e si impone, come si vede nel Quarto stato di Pellizza da Volpedo. Ma oggi ogni individuo non si sente più appartenente a un Collettivo; punta alla propria emancipazione, come il professore di ragioneria del film di Virzì. Il messaggio fondamentale della sinistra storica – “ci si emancipa unendosi” – non riscuote interesse. La protesta spettacolare dei losers prende il posto dell’emancipazione collettiva,.

Perché la gente vota sempre meno? E quando vota, vota per partiti detti anti-sistema, paradossali partiti anti-partiti? A mio avviso perché nel corso del tempo hanno visto che qualunque sia il partito che governa… loro rimangono sfigati.

E’ illusorio credere che ciascuno sia in grado di giudicare oggettivamente se un governo ha governato bene o male, perché nessuno – nemmeno i “tecnici” della politica – ha criteri oggettivi e precisi per valutare i risultati del governare. Nemmeno in economia, perché crisi o boom economici molto spesso non sono effetto di misure di governo ma di cicloni atmosferici che possono venire da lontano. Molti processi sociali non sono affatto controllabili da parte degli esecutivi, anche se la persona comune tende a ritenerne responsabili proprio questi (“Piove, governo ladro”).

Insomma, l’elettore vede sempre meno una relazione tra il proprio voto, quel che gli accade e quel che gli sembra che accada nel paese. Se le cose gli vanno personalmente bene, può sempre dire “è solo merito mio!”, mentre se le cose gli vanno personalmente male dirà “è tutta colpa Loro”.

Invernizzi ricorda che quando un voto popolare spezza un progetto preciso pensato da specialisti, la politica si incarica di disinnescarne l’effetto attraverso escamotage. Ho citato il caso del referendum norvegese. L’autore ricorda come il rigetto referendario del Trattato costituzionale europeo da parte di Francesi e Olandesi nel 2005 fu completamente vanificato dal trattato di Lisbona del 2007, che riprendeva in altra forma il Trattato bocciato dagli elettori. Questo è quel che Yascha Mounk chiama “liberalismo anti-democratico”.

Nel 2016, dopo il risultato referendario della Brexit, anche in Italia molti (presidente della Repubblica incluso) dissero che era stato un grave errore far votare la gente su patti internazionali come l’esser membri UE. Insomma, le scelte strategiche dei “tecnici” non possono essere giudicate dal popolo. C’è, a sinistra come a destra, una voglia sempre più confessa di limitare la democrazia.

E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Non c’è da parte dei tecnici un progetto o un complotto contro la democrazia, ma sempre più costoro si sentono in dovere di ignorare le decisioni degli sfigati. Questa potrebbe essere una delle ragioni profonde del perché un certo elettorato preferisca votare per partiti in fondo eversivi, anzi indecenti. I loro leader – che sia Bossi o Trump o Grillo o Kickl o altri – sono impresentabili. Il solo fatto poi di richiamarsi al fascismo o al nazismo o tifare per Putin rende questi partiti particolarmente indecorosi. È come se l’elettore, votando per costoro, dicesse: “Ecco, voi ci disprezzate, e allora io impongo alla nazione figure evidentemente spregevoli come voi pensate che noi siamo!”

Invernizzi si chede: perché proprio oggi gran parte della popolazione è così delusa e arrabbiata?

La narrazione liberal-democratica fatta propria dalla sinistra consiste nel dire “anche tu che sei di origini sociali molto umili puoi raggiungere le vette della società!” Così i liberali esaltano l’epopea di Leonardo Del Vecchio, che da orfanello martinitt divenne poi l’uomo più ricco d’Italia. La sinistra americana esalta Alexandria Ocasio-Cortes, che, figlia di portoricani del Bronx, povera, ha lavorato come cameriera finché a soli 29 anni non è stata eletta al Congress americano. Storie molto edificanti, in effetti. Ma che mascherano questa evidenza: che pochi orfanelli martinitt diventeranno grandi industriali, che poche bariste portoricane d’America diventeranno leader politici. La maggior parte degli orfani poveri e dei portoricani in US avranno una vita consequenziale alla loro nascita.  Insomma, ci saranno sempre vistose ineguaglianze di prestigio oltre che di redditi. A meno di non sperare nella profezia consolatoria di Andy Warhol, “in futuro ciascuno sarà celebre per 15 minuti”.

Scrive Invernizzi:

“A differenza degli schiavi dell’antichità, dei servi della gleba medievali e dei proletari all’inizio dell’epoca industriale, gli sfigati odierni godono sia di un grado relativo di benessere materiale sia di diritti giuridici universali. Il loro problema non è pertanto la sopravvivenza o la libertà, ma il riconoscimento da parte degli altri” (p. 10)

Ora questa hegeliana “lotta per il riconoscimento” implica un confronto con una parte avversa. La nostra identità sociale è nel confronto con un alter. È il principio agonistico di ogni partecipazione politica: siamo politicamente qualcosa solo nella misura in cui ci contrapponiamo a qualcun altro. Non a caso la vera grande passione politica delle masse è lo sport agonistico. Scrive Invernizzi: ogni lotta per il riconoscimento implica la partecipazione attiva dei singoli a unità politiche, e il conflitto strutturato tra unità politiche. Ma, come abbiamo visto, la gente partecipa sempre meno a unità politiche, essa pensa e agisce in “sciami”, in aggregazioni provvisorie di individui. E gli sciami non hanno un vero impatto politico in quanto tali. Da qui il senso di frustrazione e la rabbia di tanti per non poter incidere affatto sulla realtà in cui vivono.

Vorrei aggiungere un mattoncino alla tesi di Invernizzi. Perché la protesta populista tal come lui la descrive – ovvero una richiesta disperata di riconoscimento – caratterizza proprio la nostra epoca? 

Dopo tutto anche negli antichi regimi c’erano persone ai margini, vagabondi, piccoli manovali, avventurieri, ecc. Certo ci sono state sempre rivolte di contadini e del popolo minuto (le jacqueries, i Ciompi del tumulto a Firenze, ecc.), ma esse assumevano una forma corporativa, avevano insomma un riferimento sociale più o meno preciso. Mentre quale riferimento sociale c’è nei gilets jaunes o in chi vota Salvini, a parte la sfiga? La mia ipotesi è che il populismo come lo conosciamo è una conseguenza diretta della democrazia.

Le democrazie moderne si basano su un principio molto semplice: un essere umano, un voto. Non sono più riconosciuti i “ceti” (come nobiltà, clero, terzo stato) né le “classi” né le “corporazioni”, ma solo individui uno = uno. Puoi essere un premio Nobel o un analfabeta, sempre un voto vali. L’opinione di ciascuno vale quanto quella di qualsiasi altro. Dal voto sono esclusi solo i minorenni, chi ha subito una condanna penale e gli stranieri residenti. Il famoso individualismo che caratterizzerebbe la nostra epoca è già implicitamente inscritto nella regola fondamentale della democrazia.

Questo individualismo della narrazione liberal-democratica si basa sulla filosofia utilitarista (Hume, Bentham, Mill), secondo la quale solo il soggetto individuale sa che cosa è bene o male per sé, ovvero, che cosa aumenta o diminuisce il proprio piacere o il proprio dispiacere. Ciò che ogni soggetto sente è il riferimento ultimo di ogni etica e quindi di ogni politica. In questo quadro, non esiste un voto o un sentire collettivi: il Proletariato, una Religione, le Regioni, la Borghesia, l’Intellighentzia… non votano. Votano solo singoli individui. E tutta la narrazione liberal-democratica consiste nel dire a ciascuno e a tutti: “ognuno può raggiungere le vette più alte della società”.

La conseguenza di questa narrazione è che ognuno pensa di avere ragione e di avere il diritto di raggiungere un alto livello di ricchezza, onori, prestigio, di avere sesso e amore. La promessa “chiunque può diventare qualcuno” viene interpretata come “ciascuno deve diventare qualcuno”, da qui la delusione. Perché un’eguaglianza assoluta è utopica. Quindi, la liberal-democrazia non mantiene le sue (immaginarie) promesse. Di fatto “Quel che io penso non conta nulla. Il mio voto è una goccia nel mare”. Da qui la voglia di esprimersi, un tempo con i graffiti sui muri, oggi con i social di internet. La democrazia esalta la doxa, l’opinione, non dice “prima di tutto devi studiare duro per avere una retta opinione!”

Tutto questo potrebbe risolversi in regimi autoritari, come sostiene Anne Applebaum. Ovvero: tutta questa protesta contro gli autorevoli potrebbe portare al trionfo degli autoritari. Perché il principe autoritario libera i cittadini dalla condizione atomizzata di ciascuno ponendosi come incarnazione di un Ideale che permetta un nuovo senso di appartenenza. È quel che accadde in Italia nell’evoluzione dai liberi comuni verso i principati rinascimentali: il popolo minuto stesso a un certo punto ha invocato i principi come rimedio allo scontro troppo violento tra fazioni e potentati nei comuni. La democrazia porta la spada, non la pace.

Qualcosa di simile è accaduto in Russia, da quel che ho potuto vedere. Dopo 15 anni di rovina politica e di impoverimento generalizzato, Putin è riuscito non solo a migliorare l’economia, ma soprattutto a dare a tutti i russi un nuovo orgoglio nazionale. Dopo umiliazioni e frustrazioni, i russi si sentono di nuovo la Terza Roma. Come mi hanno detto molti russi “Putin è la Russia!”. Da qui l’ampio appoggio popolare di cui gode la politica criminale putiniana in Ucraina e altrove. Nessuna ragione economica né politica spiega l’invasione dell’Ucraina, a parte un desiderio di grandeur. Con i sovranismi nazionalisti gli individui sono liberati dall’onere di guadagnare a sé stessi una improbabile gloria, ciascuno è glorioso nella madre Patria. Come negli anni 1930 la grande maggioranza degli italiani, anche i più miseri e irrilevanti, si sentivano parte dell’Impero fascista. Lo sciame diventa allora un Corpo mistico che per riflesso dà dignità a ciascuno dei suoi membri. La democrazia liberale, insomma, è un’impresa troppo ardua per chi non ne trae alcun vantaggio.

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