Varia

I numeri puzzano

 Nel 1966, ero molto giovane, andai al congresso della Società Filosofica Italiana sul tema “L’uomo e le macchine”, tema profetico allora. Si tenne a Pisa perché là c’era la mastodontica Calcolatrice Elettronica, la prima in Italia adibita alla ricerca scientifica. Chi avrebbe immaginato allora che i computer sarebbero diventati minuscoli?

Un vispo gesuita, Roberto Busa, ci introdusse al funzionamento del bestione dato che il Vaticano aveva allora chiesto di elaborare l’Index Thomisticus, ovvero un’analisi dei 10 milioni di parole che compongono l’opera omnia di Tommaso d’Aquino. Mentre ci distribuiva i fogli con il print out di varie voci, sentii un illustre filosofo che piagnucolava dicendo a chi gli era vicino “che fine ha fatto san Tommaso!”
Allora sorrisi, pensando che la calcolatrice faceva in fretta un Indice delle Parole e dei Concetti che molti amanuensi avrebbero potuto elaborare in anni di lavoro.

Allora credevo che col tempo i pregiudizi contro “il quantitativo” si sarebbero dissipati nella cultura europea, ma non è affatto così. Anche tanti giovani filosofi hanno ereditato quella che chiamerei la puzza-sotto-al-naso umanistica, che all’epoca, anni 1960, vedevamo come tipica di anziani professori hegelo-crociani.

Nell’agosto 2024 leggo un articolo del Corriere della Sera “La qualità di un museo non si misura con i numeri” a firma di un critico d’arte accademico relativamente giovane. Egli lamenta che i direttori dei musei italiani per decantare i loro successi si limitano a darci l’aumento del numero dei visitatori grazie alla loro gestione. Ha perfettamente ragione: l’aumento dei visitatori non significa granché. Perché esso riflette l’aumento dei flussi turistici – è normale che se a Firenze ogni anno si accresce la marea di turisti, più persone andranno agli Uffizi. Così l’autore raccomanda di predisporre – parole sante! – questionari di tipo qualitativo per misurare il grado di soddisfazione del pubblico, ecc.

In effetti, spero che i direttori dei musei italiani abbiano anche altri strumenti più fini per calcolare le risposte del pubblico. L’ho visto fare in America persino all’uscita di certi cinema: ti chiedono gentilmente di riempire un modulo in cui ti chiedono se il film ti è piaciuto o meno, e perché, secondo te cosa è riuscito e cosa no, ecc.

Là dove però si sente subito la puzza della puzza-sotto-al-naso umanista è quando l’autore raccomanda di “uscire da approcci economicistici, impersonali, senz’anima” che qualifica – non poteva mancare! – “di impronta neo-liberista” (solo i neo-liberisti fanno statistiche? Ne facevano tante anche i programmatori sovietici. Suppongo che anche I leader di Hamas guardino statistiche.). Insomma “il quantitativo”, assimilato alla materia, è il male, “il qualitativo”, assimilato allo spirituale, è il bene. Ma l’autore non si rende conto che se si seguisse la sua raccomandazione – trovare il modo di misurare [parola sua] i gradi di soddisfazione del pubblico, o addirittura le loro reazioni emotive più profonde – si tratterebbe comunque di sostituire a misure rozze misure più fini. Se vuoi parlare di popolazioni, di folle, la quantificazione è inevitabile. Il qualitativo può sempre essere quantificato, perché, contrariamente alla visione paleo-umanista, quantitativo e qualitativo non sono vie alternative ma, direi, si illuminano a vicenda.

Chi scrive fa lavori più che mai umanistici – psicoanalisi e saggistica – ma sin dalla gioventù ha pensato bene di sciacquare i suoi panni non in Arno, ma nelle scienze sociali e quindi anche nella matematica a queste scienze connessa.

Se si è di casa nel quantitativo, i numeri possono offrire una chiave alternativa per capire una realtà che invece, vista con occhi umanistici, appariva del tutto diversa. Spesso puntare direttamente al “qualitativo” – assimilato abusivamente allo “spirituale” della nostra tradizione cristiana – si riduce a confermare i più vetusti pregiudizi su qualsiasi cosa.

Per esempio, uno dei pregiudizi più diffusi, specialmente tra gli intellettuali, è che l’Italia avrebbe un sistema educativo di primo livello, superiore a quello di altre nazioni più sviluppate di noi. Tanti pensano che il sistema gentiliano (cioè fascista) delle nostre scuole secondarie, dando ampio spazio alla dimensione storica, sia ottimale, e che quindi gli italiani in media siano più colti di tante altre nazioni. E’ uno dei tanti pregiudizi narcisistici diffusi. Quando a costoro mostro i dati reali del livello educativo dell’Italia, si rivela la realtà di un paese molto arretrato. Che si tratti del numero di laureati, dei libri letti pro capite, dei risultati ai test scolastici, dei livelli di scolarizzazione, ecc., siamo quasi sempre fanalino di coda in Europa. Com’è possibile che il nostro sistema educativo che fa gonfiare il petto a tanti poi, di fatto, produca risultati così poco esaltanti?

Chi sa leggere le statistiche, scheletro quantitativo di realtà complesse, acquista come un sesto senso: gli basta dare un’occhiata a qualche tabella e già esse gli descrivono il mondo a cui si riferiscono anche meglio di pagine e pagine di reportage giornalistici. Talvolta con amici esperti di cose sociali ci siamo divertiti a indovinare un paese solo a partire da suoi elementi puramente quantitativi. E spesso ci azzeccavamo. I numeri o i dati in apparenza opachi prendono subito la forma di uomini e donne reali, delle strade che percorrono, delle scuole che frequentano, della loro alimentazione…
Per chi sa leggerli, i numeri sono parlanti ancor più dei video.

Credo che una parte della diffidenza oscurantista per “il quantitativo” sia dovuta al fatto che i nostri umanistici sanno, nel fondo, che i dati quantitativi smentiscono gran parte delle loro infondate credenze. Se si trova una misura delle cose veramente fine, essa ci sbatte prima o poi in faccia il volto vero, senza maschere, scabro, di una realtà che non vogliamo vedere. 
Anche la realtà di quel che danno i nostri musei alla massa dei turisti scatta-e-fuggi.

1 pensiero riguardo “I numeri puzzano

  1. caro Benvenuto, sono d’accordo con la sua difesa della relazione quantità/qualità. Giusto ricordare che residui di umanesimo ingessato e non elaborato producano una sfiducia nei numeri e una valorizzazione della qualità come alternativa ai primi. Ci sarebbe tanto da dire in proposito ma un elemento di riflessione andrebbe aggiunto a mio parere: l’uso massiccio, distorto e strumentale che viene fatto dei numeri e della quantità da parte dei decisori, sia quelli politici che quelli, ancor più influenti, economici. Dalle statistiche all’epidemiologia esiste un valore d’uso dei dati, dei numeri e delle analisi quantitative non finalizzate a una reale comprensione dei fenomeni, a una lettura critica, sapiente, articolata, che permetta di sostanziare orientamenti e decisioni secondo scelte consapevoli. Dalle aule dell’università agli studi e laboratori dei centri di ricerca i numeri escono per diventare, spesso, non sempre ovviamente, in altri contesti, retorica, ubriacatura confondente, supporto a posizioni e decisioni che con l’éspit de finesse nulla hanno a che fare. Una pragmatica adozione ai fini di scelte e orientamenti politici ed economici: basti pensare a quanto avviene con i numeri connessi ai flussi migratori e il loro contributo a disegnare una realtà ideologica e mal fondata. Oppure quelli delle diagnosi di depressione o autismo, tanto per rimanere sul mediatico. Numeri nudi non tenemus.

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